La vendetta del linguaggio

Informatori segreti ma decisamente attendibili assicurano che l’altra notte, verso l’alba, a illuminare don José Luis Rodriguez Zapatero sulle vere cause del suo tramonto abbia provveduto la grande Vesta, la dea della Memoria, con queste affettuose parole. «Mio caro giovanotto, date retta a me: la vera causa del vostro tracollo non è la crisi economica. So bene che purtroppo questo flagello sta producendo anche nel vostro nobile Paese, come in tutto il resto del mondo, effetti micidiali, fra i quali non ignoro che primeggiano un'altissima disoccupazione, una pertinace corruzione politica e il disagio dei giovani. Ma a questi fattori dovete aggiungere la mia collera, che avete provocato con uno degli atti più ingiuriosi di tutti i tempi. Mi riferisco, ovviamente, a quella ridicola legge con cui voi e il vostro governo, nell'intento di adeguare il diritto di famiglia della vostra patria ai gusti del cosiddetto popolo gay, avete dimostrato di essere assolutamente sordi allo spirito del linguaggio, ragion per cui, dal giorno in cui riusciste a imporre quella legge, non cesso di pregare tutti i giorni Sant'Isidro, il leggendario patrono di Madrid, di rispedirvi al più presto in quel nulla dal quale siete usciti per il rotto della cuffia. Questa legge su matrimonio e famiglia è forse il prodotto più indecente della stolta boria riformatrice del vostro tempo. Abrogando l'uso delle parole "padre", "madre", "marito" e "moglie" e pretendendo di sostituirle con le parole "coniugi" e "genitori", questa legge lascia infatti intravedere l'intento maligno di estirpare quelle parole dal linguaggio umano, che è la casa della vita. E pertanto non è affatto una semplice vittoria del cosiddetto orgoglio gay. È una vittoria dell'idiozia. Forse la più devastante e insieme derisoria che sia stata mai conseguita dallo spirito di ribellione alle leggi della natura e della cultura. È anche un attacco bestiale e inane alle stesse leggi della comunicazione umana. Alla stessa possibilità di articolare un discorso dotato di senso. A quell'elemento inaggirabile del linguaggio che è la struttura necessariamente oppositiva e binaria di ogni parola umana. Struttura che non fa che riprodurre e rivelare quella della vita. È inoltre un'aggressione non meno volgare che vana a tutti e tre i registri sui quali quella struttura si articola: il simbolico, l'immaginario e il reale. L'abolizione di quelle parole presuppone infatti l'idea perversa e insensata che dal nostro universo immaginario, dal nostro universo simbolico e dal nostro universo reale possa essere estirpata anche una soltanto delle innumerevoli, infinite coppie di termini differenziati che – come maschio e femmina, uomo e donna, sole e luna, cielo e terra, giorno e notte, bene e male, bianco e nero, vita e morte, sopra e sotto, e così via distinguendo e opponendo – ci permettono di orientarci in quella foresta di simboli che è la realtà. Infine è un insulto al sentimento poetico e religioso della vita. Ma è un insulto votato – ve lo assicuro – alla più comica delle disfatte. Giacché nessuno mai riuscirà a estirpare ope legis la parola "padre" dal Pater Noster. O la parola "madre" dall'Ave Maria. O le parole "madre", "figlio" e "figlia" dai versi con cui Dante definì Maria «vergine madre, figlia del tuo figlio». O le parole "mamma" e "papà" dalla bocche di tutti i bambini che continueranno a chiamare così, per tutta l'eternità, i loro padri e le loro mamme. Parola della madre delle muse, e per ciò stesso anche del linguaggio».