La voglia di svolta del popolo leghista

La Lega soffre, la corsa elettorale ha il fiatone. Si stia attenti a non confondere un trend, una tendenza, con la realtà: quella fondata da Umberto Bossi rimane una forza politica solidamente radicata nel suo elettorato tradizionale, al nord. E' realtà, però, anche il fatto che subisce una battuta d'arresto, un arretramento, proprio sul terreno elettorale che gli è più favorevole, quello amministrativo. Non si tratta solo di Milano, dove pure ebbe il sindaco, ma dei tanti campanili sotto i quali, un tempo, la crescita del verde sembrava inarrestabile. Ci sono cause contingenti, che aiutano a capire quel che è successo. Ma ce ne sono anche di meno passeggere, coinvolgendo il nocciolo politico della nostra vita collettiva: non solo la pressione fiscale non è diminuita, ma neanche il fisco è stato riformato, anzi, semmai è divento più pressante e sbrigativo. Stando al governo la Lega appare meno di "lotta". La natura profonda di quel movimento, come di altri che hanno solcato la storia patria, è antipartitica e antistatale. Si può usare, per definire questo tipo d'identità, un linguaggio colorito, e, del resto, non è che la Lega si sia risparmiata, riguardo ad espressioni forti e concetti arditi. Ma è un fatto che, da tempo, ha messo a raffreddare i bollenti spiriti. Se ascoltate Radio Padania sentite sovente il conduttore che riprende gli esaltati secessionisti o i propugnatori delle armi, avvertendo che molti nemici della Lega non aspettano altro per accusare tutti di follia. Mi pare un'evoluzione positiva, che è bene sottolineare. Sta di fatto, però, che la condotta complessiva del governo è divenuta, in certi passaggi, repellente per l'elettorato leghista. Le ripetute chiacchiere sui "responsabili", le nomine dei sottosegretari, il passaggio di mano del ministero dell'agricoltura, non sono cose destinate a piacere, fra quegli italiani che riconoscono in Bossi il loro vate. E, del resto, neanche l'imborghesimento dei costumi, in capo ai loro dirigenti e ministri, suscita simpatie. Forse anche il leader indiscusso e adorato non ci ha guadagnando, sistemando la prole in politica. A questo si aggiunga il dato strutturale, il macigno non aggirabile: la lunga battaglia federalista, i notevoli risultati ottenuti (la disastrosa modifica costituzionale fu votata dalla sinistra, nel 2001, per inseguire i leghisti), la riforma in corso, assumo un senso, per i cittadini, se portano il risultato più sbandierato e, fin qui, non colto, ovvero il trattenere i soldi versati al fisco nelle zone ove abitano i contribuenti. Ma si tratta di un obiettivo difficilissimo. Sia per ragioni obiettive, ovvero la necessità di finanziare i costi del debito e della spesa pubblica, fin qui non compressi, sia per ragioni politiche: è vero che la Lega è radicata al nord, ma se si trova al governo, assieme al Pdl, lo deve ai voti raccolti dalla coalizione al sud. Un dato, quest'ultimo, che le urne hanno confermato. E da quel dato deriva l'impraticabilità politica di un taglio ai trasferimenti. Questa contraddizione, che non è solo leghista, ma cui il loro elettorato è particolarmente sensibile, può essere camuffata finché le battaglie "contro" e la natura di "lotta" sono prevalenti, ma viene snudata dopo tre anni di governo. Capisco che quasi tutti i commentatori, interessati alla sorte del governo e non infelici nel considerarla compromessa, battano sul tasto della lealtà di Bossi verso Berlusconi, contando che sia meno solida, ma credo sia più importante avvertire che la minore capacità di gestire quella contraddizione è il più potente colpo all'unità istituzionale d'Italia. Altro che sparate propagandistiche e inni alla turgidità dell'inesistente Padania. www.davidegiacalone.it