Il nostalgico Giulio resuscita l’Iri

Il pachiderma sta per risvegliarsi. Quell’Iri, l’Istituto per la ricostruzione industriale, onnipresente nella vita degli italiani fino alla fine degli anni '90, proprietario di banche, tlc e autostrade, di chimica e auto, ma anche di pomodori e conserve, insieme ad annessi e connessi, è tornato. La sua clonazione è avvenuta in questi giorni con la messa in campo della potenza di fuoco finanziario della Cassa Depositi e Prestiti per salvare Parmalat dalle mire dei francesi. Ieri il ministro Giulio Tremonti gli ha dato una nuova dignità e un nuovo futuro. «La competizione internazionale oggi non è per nazioni ma per blocchi e continenti. Per come è messo adesso il mondo sarebbe meglio avere l'Iri e la vecchia Mediobanca, ossia strutture capaci di organizzare un sistema». Tremonti, dunque, sulle orme di quel Alberto Beneduce, tecnico dei ministeri giolittiani che, pugnace assertore della necessità di avviare un processo di industrializzazione del Paese, disegnò il primo nucleo della superholding pubblica nella quale far confluire partecipazioni delle industrie nazionali e delle grandi banche prossime al tracollo dopo la grande depressione del 1929. Nasce in quel momento, nel 1933, ironia della sorte nella massima espansione del fascismo italiano, un conglomerato industriale che trova un paragone solo nel sistema economico sovietico. Quello della centralizzazione e dell'economia collettivistica. In Italia, unica in Occidente, si sperimenta quella che più tardi sarà la Terza via dell'economia. E cioè la compresenza di attori pubblici e privati nell'arena economica. Un mostro per i detrattori, una panacea per gli economisti keynesiani che predicano l'azione pubblica nei cicli recessivi. Sta di fatto che le innumerevoli aziende che entrano nell'orbita dell'Iri segnano la nascita e la crescita di più generazioni di italiani. Nella pancia dell'Istituto si ritrovano nel corso degli anni tre holding di settore: la mitica Stet dedicata alle telecomunicazioni che porta con sè, fino alla privatizzazione, la Telecom Italia, nata dalle ceneri della gloriosa Sip attiva fino all'avvio della sperimentazione dei cellulari Gsm nel 1995. A questa, nella quale si formano i grandi manager di Stato che getteranno le basi per la creazione di uno dei più avanzati mercati delle tlc del mondo, si affiancano la Finmare per il settore della cantieristica e la Finsider per la siderurgia. Da non dimenticare poi la presenza in settori che hanno accompagnato il boom economico italiano. Nel 1950 l'Iri avvia il programma di costruzione della rete autostradale italiana con la società Autostrade, oggi privatizzata e finita nelle mani della famiglia Benetton. Crea l'Eiar, padre della moderna Rai. Porta gli italiani nei cieli con l'orgoglio del marchio Alitalia invidiato nel mondo e produce cemento con la Cementir che sostiene fisicamente la costruzione delle infrastrutture dello Stivale. Non manca nulla nel braccio armato della politica italiana nell'economia. Eni e Finmeccanica, ad esempio, oggi aziende leader nell'energia e nella difesa, si sono rafforzate e cresciute nell'alveo pubblico Così come l'Alfa Romeo, marchio mitico dell'auto ceduto solo nel 1986 alla Fiat E la Sme la finanziaria alimentare. E che dire della banche. Le tre regine del credito che hanno accompagnato lo sviluppo delle imprese italiane per decenni. Le tre Bin, le banche di interesse nazionale, Credito Italiano, Comit e Banca di Roma. Nuclei di risparmio nazionale consacrati allo sviluppo e alla crescita del sistema Italia. Tra sprechi e conti disastrati, tra socializzazione delle perdite e buchi a carico del bilancio pubblico, l'Italia con l'Iri è cresciuta. E a questo ruolo propulsivo nell'economia oggi Tremonti pensa, anela, preparando il suo ritorno. Magari anche con l'affiancamento di una Mediobanca sullo stile di quella di Cuccia. Invidiata e criticata. Ma oggi più che mai necessaria.