La rivolta laica dei giovani

diMAURIZIO PICCIRILLI Gli squilli di rivolta che attraversano il mondo arabo lasciano perplessi gli osservatori occidentali. Troppo legati a stereotipi di altre rivoluzioni che poco hanno a che fare con quelle attuali. Nulla a che vedere con la Caduta del Muro di Berlino. Completamente diverso lo scenario odierno dal cambio di regime in Iran con l'avvento di Khomeini. Ci troviamo di fronte a qualcosa di nuovo che ha fagocitato persino l'islamismo jihadista emarginandolo ed estromettendolo dalle piazze. Le rivolte di oggi non è detto che siamo prodromi di rivoluzioni. Più probabile che esse portino a cambiamenti. Certamente ci sarà l'avvento di una democrazia più specificamente autoctona e non certamente di stampo occidentale. I regimi autocratici e dinastici con il partito unico sono destinati a tramontare definitivamente. La spallata arriva dalle nuove generazioni. Più religiose, ma anche più informate. I giovani delle piazze arabe hanno studiato, ma sono disoccupati o faticano a trovare lavoro. Molti non sono sposati e, se lo sono, hanno un figlio solo. Le difficoltà economiche condizionano la loro vita. Usano i cellulari e Internet. Scambiano informazioni e conoscenza con i giovani di altri Paesi e con i loro amici che vivono in Europa e negli Stati Uniti. Le ragazze portano il velo. I ragazzi pregano cinque volte al giorno. Nessuno mai però pensa di farsi esplodere. A piazza Tahrir come in piazza delle Perle non sono echeggiati gli slogan degli estremisti: «Allah è grande» è risuonato solo durante alcuni funerali. La parola jihad inesistente. «Hurriya», libertà, la parola più urlata dei giovani che vogliono il cambiamento. In certi casi, in Giordania e in Marocco, sono estimatori del re, ma vogliono la cacciata dei governanti corrotti. Il grido che unisce i giovani, da Casablanca a Gibuti, è più libertà. Di espressione soprattutto. Più lavoro e un'equa ripartizione delle ricchezze che in molti Paesi derivano dalle fonti petrolifere e sono appannaggio di una ristretta élite. In questo scenario Al Qaeda è in ombra. I suoi sostenitori sono minoranze in questi Paesi e senza seguito. I più convinti vivono da anni fuori dai confini patri. Sono in Afghanistan, in Pakistan. Sono soprattutto in Europa e negli Stati Uniti dove sognano la Guerra santa, si compiacciono di quanto sta accadendo in patria, ma sono consapevoli che il popolo che caccia i tiranni non ha tra i suoi miti Osama Bin Laden. I movimenti che si ispirano alla jihad globale non hanno alcun collegamento con le istanze sociali dei gruppi che manifestano nei Paesi arabi. I giovani vogliono cacciare i loro governanti non perché li ritengano «apostati». L'accusa è di corruzione e tirannia. Persino i Fratelli Musulmani, organizzazione ben ramificata in tutto il mondo arabo, sta seguendo il doppio binario. Da un lato, mantiene vivo l'integralismo fatto di anti americanismo e anti sionismo. Dall'altro, organizza un partito più laico e più attento a problematiche sociali ed economiche. La sfida per i giovani delle piazza arabe e per l'Occidente è aggirare Al Qaeda e le spinte alla restaurazione di vecchi sistemi, magari preferiti dall'Occidente, ma poco inclini alla spinta di libertà. La democrazia e il cambiamento dovranno superare le clientele e le rivalità tribali secondo schemi nuovi. Seguendo la cultura del mondo arabo: più religiosa, ma senza che l'Islam diventi ideologia. A dieci anni dall'11 settembre la vittoria sul fanatismo terrorista viene da questi giovani che pregano Allah e rifiutano la jihad. All'Occidente il compito di non tradirli per gettarli tra le braccia di Osama.