Berlusconi e quei maledetti elettori

Berlusconi è ancora forte: parola dei suoi avversari, che hanno voluto il passaggio parlamentare di oggi e domani per cercare di detronizzarlo  e mandarlo a casa. Sentite che cosa è scappato di dire a D'Alema giovedì scorso agli studenti del Pilo Albertelli, liceo classico romano all'Esquilino: «Il problema Berlusconi sta nel consenso che 15 milioni di italiani gli hanno accordato». E sono pronti a rinnovargli in caso di elezioni anticipate, non a caso avversate dallo stesso D'Alema e dai suoi compagni, sostenitori di un governo più o meno tecnico «di transizione» in caso di crisi. Ma «per far finire il berlusconismo, più che un governo tecnico, servirebbe la rivoluzione invocata dal grande Mario Monicelli», ha sospirato dalle pagine insospettabili della Repubblica Curzio Maltese commentando il comizio pronunciato sabato in Piazza San Giovanni dal segretario del Pd Pier Luigi Bersani. Povero Monicelli. Non vorrei che si pensasse che si è ucciso non per gli acciacchi e la stanchezza dei suoi 95 anni, ma per la frustrazione procuratagli dalla troppo lunga e vana attesa della rivoluzione antiberlusconiana. Oltre ad invocare un governo di transizione, Bersani ha espresso un «sogno»: quello di guidare un partito grande e moderno. Che evidentemente non è allo stato delle cose il suo: un partito che all'impietoso e già citato Maltese appare giustamente «fermo al Novecento, oppure regredito all'Ottocento, chissà». Lo stesso Bersani, d'altronde, ha detto ai suoi militanti intirizziti dal freddo che «l'Italia è migliore di quel che le capita da tempo»: quindi migliore anche del maggiore partito d'opposizione. Che affonda le radici per i tre quarti nel vecchio Pci caduto sotto il muro di Berlino e per l'altro quarto nella logoratissima sinistra democristiana. Esso si è ridotto ad affidare le sue speranze di «liberazione» da Berlusconi a quel campione di disinvoltura che è diventato il presidente della Camera. «Voteremo compatti la sfiducia», ha annunciato Fini l'altro ieri ad una scuola di Genova e ripetuto ieri in televisione, ospite di Lucia Annunziata, dopo avere liquidato la richiesta di un estremo tentativo d'intesa con Berlusconi rivoltagli dalle cosiddette colombe del suo nuovo movimento e da altri parlamentari del Pdl. Ma Fini, guarda caso, domani sarà il primo a non farlo, se non ha intenzione di calpestare, dopo tutte le altre regole, anche la consuetudine ultracentenaria che impedisce al presidente della Camera di votare per ragioni di decenza istituzionale, dovendo essere la sua una carica neutra e di garanzia. A chi gli contesta il pasticcio tra il suo ruolo istituzionale e quello di capofazione, assunto con la formazione di Futuro e Libertà, Fini suole rispondere vantandosi di non avere mai violato gli obblighi regolamentari d'imparzialità nella conduzione dei lavori e di ogni altra attività della Camera. Ma, a parte i vantaggi di visibilità nell'offensiva contro Berlusconi ricavati dal proprio ruolo istituzionale, egli dimentica che il suo ufficio di presidente a Montecitorio è diventato anche fisicamente la cabina di regia e di comando dell'offensiva contro il governo, con tanto di riunioni e incontri. C'è una parlamentare che ne è uscita offesa, e quasi in lacrime, come ha raccontato ieri al Giornale, per avere osato dissentire da lui dopo avergli dato credito lasciando il Pdl. Si chiama Souad Sbai, che si spera non finisca indagata per corruzione dalla Procura di Roma per essere tornata con Berlusconi.