E Tremonti ci salva dagli Usa

Aveva visto giusto Giulio Tremonti: la business community, specie quella anglosassone, non sta rinunciando in nulla ai propri vizi dopo la crisi finanziaria che pure ha provocato. Così dopo l'esplosione della grande bolla speculativa, ecco la grande guerra del tutti contro tutti. Giovedì è stata la volta delle banche centrali e delle valute. Ieri delle banche d'affari di Wall Street, e a farne le spese sono stati gli istituti di credito europei. In prima fila quelli italiani – da Monte dei Paschi a Unicredit passando per Intesa, Popolare di Milano e Ubi – tutte vittime di una limatura del target price da parte di Bank of America Merril Lynch. Risultato, cali dal 3 al 4% dei principali titoli bancari, e un deprezzamento dell'1,2% del listino generale, in una giornata che pure ha visto due ottime notizie sul fronte dell'economia reale: un aumento di 151 mila unità degli occupati negli Stati Uniti – se ne attendevano la metà – e per quanto ci riguarda la conferma da parte di Ficht del rating AA-, con prospettive stabili. Un altro buon colpo per la linea del Tesoro, dopo l'analogo giudizio espresso giovedì da Standard & Poor's. Purtroppo le cose non seguono la stessa logica su altri fronti. Anche grazie alle nuove debolezze di Barack Obama, la Federal reserve americana – l'equivalente della nostra Banca d'Italia – ha annunciato un piano di acquisto di buoni del tesoro Usa per la bellezza di 600 miliardi di dollari da qui a giugno. Forse anche per questo Ben Bernanke, il capo della Fed, viene soprannominato «Helicopter»: la sua dottrina, dicono, è che per sostenere l'economia non c'è nulla di meglio che caricare su un elicottero tonnellate di dollari e rovesciarli di sotto. Della pioggia di biglietti verdi, ovviamente, beneficiano solo banche e aziende a stelle e strisce; e forse – ma non è detto - la traballante leadership della Casa Bianca. Il resto del mondo invece rischia grosso. Il risultato infatti è ovvio: il dollaro si indebolisce, i tassi sui bond federali scendono e il Tesoro americano risparmia in interessi, mentre il made in Usa dovrebbe guadagnare in competitività. Al contrario, le valute concorrenti si rafforzano. Su tutte l'euro. Ma attenzione allo yuan cinese, alla rupee indiana, al real brasiliano: paesi i cui tassi d'interesse, anziche a zero come in Occidente, stanno tra il 5 e il 10%. Il rischio, già espresso in toni durissimi dai governanti di Pechino, Delhi e Brasilia, è che le economie emergenti che finora si sono sobbarcate la ripresa mondiale, non riescano più ad esportare, trovandosi invece inondate di dollari svalutati. Con una concreta prospettiva di strozzatura del credito e di inflazione, che a sua volta si trascinerebbero dietro una crisi dei salari e il malcontento sociale: una spirale perfida non solo economica, ma in grado di minare lo stesso ordine pubblico di questi paesi. Alla decisione della Fed hanno infatti immediatamente reagito le banche centrali di Giappone e Corea del Sud, minacciando ritorsioni contro l'America. E in ordine sparso sono giunte a stretto giro le decisioni della Bce e della Bank of England. Alla faccia dei comportamenti virtuosi e coordinati ogni volta promessi dai vari G8 e G 20. Di che cosa stiamo parlando? L'America di Obama segue una linea iper-espansiva, dopo che la Casa Bianca è stata per due anni a guardare. L'Europa a trazione tedesca imbocca una politica super-restrittiva. Entrambi, Usa ed Europa, hanno nel frattempo generosamente foraggiato con denari pubblici le banche responsabili del crac, e le industrie che della crisi sono rimaste vittime. Le economie emergenti, dove ormai la Cina è la seconda potenza mondiale, vedono in gioco il loro futuro. Tutti quanti – governi, banche centrali e banche d'affari – cercano di rientrare dei miliardi dati e ricevuti (e quindi da restituire) attraverso una guerra tra valute e tra listini di borsa. Così per esempio le merchant bank americane, che non hanno i vincoli patrimoniali delle banche commerciali europee, possono rifarsi di ciò che devono ai contribuenti imbufaliti del Midwest tagliando target e rating: in fondo si tratta di banche che si giudicano tra loro, difficile capire le regole del gioco.   E tuttavia qualche dato ci dovrebbe illuminare: la Goldman Sachs, per esempio, a giugno 2009 ha restituito al Tesoro 10 miliardi di dollari ottenuti in prestito l'autunno precedente. Altri 20 miliardi li ha accantonati e distribuiti per bonus ai suoi manager. Ieri a un passo dal fallimento, oggi senza più debiti e in grado di coprirsi d'oro: possibile? In questo scenario va detto che l'Italia, stavolta, ha costituito un'eccezione virtuosa. In parte per il leggendario braccio corto di Tremonti, in parte per la tirchieria congenita dei nostri istituti di credito, non abbiamo avuto default né salvataggi pubblici. Né abbiamo le barricate come in Francia, per non parlare di Spagna, Grecia e anche Gran Bretagna. Diciamo che si è fatto di necessità virtù, e c'è andata bene. Ma è anche opportuno non dimenticare che ci muoviamo in un teatro di guerra: le guerre di oggi, quelle che si combattono con le scarpe lucide. Ed in questa guerra l'Italia e il nostro sistema finanziario e produttivo si muovono su una trincea molto esposta; né siamo noi ad avere i codici dei missili. Qualcuno ha visto per caso al cinema il secondo capitolo di Wall Street? Lo ammettiamo: nonostante il regista Oliver Stone sia troppo radicaloide e spesso politicamente inaccettabile, abbiamo un debole per come sa filmare Manhattan, i suoi strabilianti loft, le townhouse dai mille intrighi ben foderate di cuoio e quercia; ma soprattutto ci piace il personaggio di Gordon Gekko. Questo genio malefico della speculazione riesce immancabilmente a trasformarsi in angelo vendicatore di fronte ai pezzi grossi della Fed, ai segretari al Tesoro, ai blasonati banchieri rispetto ai quali Gekko è un assoluto outsider. Ma soprattutto uno come lui ci conferma, se ce ne fosse bisogno, che non sono i cattivi per definizione a creare i guai: sono invece quelli buoni, le grandi merchant salvate dai governi, i banchieri centrali dai modi felpati. Più i dilettanti seduti in posti sproporzionati. Loro, i presentabili, stanno in effetti armando il dopo-crisi rischiando di produrre più danni della crisi stessa. Da uno scontro economico globale tra Usa, Europa e Cina - dove solo due dei tre contendenti possono stampare moneta a piacimento, e soltanto uno non ha un apparato produttivo asfittico, un welfare costosissimo ed un tasso demografico vicino allo zero, né deve rendere conto al popolo - indovinate chi potrebbe uscire vincitore? E chi con le ossa rotte? In fondo anche questo Tremonti l'aveva previsto.