E pur nel rispetto per il capo dello Stato e le sue buone intenzioni, anche che si dica qualche scomoda verità.

Èprobabile, che il Colle ne faccia una questione di galateo istituzionale visto che l'interim assunto dal Cavaliere dopo le dimissioni di Claudio Scajola dura da 123 giorni. A palazzo Chigi del resto non vogliono allargare il fronte con il Quirinale, e magari si cerca – secondo la migliore tradizione berlusconiana – di trasformare un problema in opportunità: ci risulta che l'offerta avanzata a Mario Baldassari, economista e uno dei senatori dissidenti finiani, sia stata concreta. Se la boccia andasse in buca si accontenterebbe Napolitano e si indebolirebbe non poco Gianfranco Fini, due risultati in uno. Altrettanto esatta la risposta attribuita a Baldassarri (peraltro lusingato): «È inutile discutere sulla poltrona se prima non si decide quale politica industriale vogliamo». L'interessato sembra dunque ripetere il refrain quirinalesco, ma proprio questo punto va sgombrato da paludamenti e retoriche. Volando basso, Baldassarri – che è un economista monetario, allievo di Franco Modigliani – intendeva riferirsi alle competenze e ai fondi dei quali il ministero dello Sviluppo è stato spogliato, prima da Giulio Tremonti, poi durante l'interim dagli altri ministri. Senza contare l'interventismo (positivo) di Berlusconi. Ma evidentemente il «monito» presidenziale intende elevarsi su orizzonti più alti: «Credo sia giunto il momento – queste le parole di Napolitano – che l'Italia si dia nuovamente una politica industriale secondo le grandi coordinate dell'integrazione europea e in ossequio ai principi della libera competizione». Che significa? Se davvero ci «coordinassimo» all'Europa, oggi dovremmo guardare soprattutto alla Germania, il paese che sta facendo registrare risultati eccezionali nella crescita del Pil, con un 3,7% a fronte del nostro 1,1%. Anche Mario Draghi, che certo non è sospettabile di accondiscendenza verso i tedeschi, ha indicato ieri la Germania come modello da imitare. Ed è stato proprio Axel Weber – fonte non sospetta in quanto presidente della Bundesbank e monetarista puro, nonché principale candidato alla guida della Banca centrale europea – a raccontare a 40 banchieri centrali riuniti la settimana scorsa a Jackson Hole, nel Wyoming, la grande rivoluzione intervenuta in questi mesi nell'economia tedesca. «Tutto è cambiato – ha spiegato – da quando si è passati da contratti di lavoro per settore e su scala nazionale a contratti aziendali e territoriali. Gli aumenti di produttività liberati da questa svolta sono anche maggiori delle stime, in sé già spettacolari». In altri termini, la Germania, per tutto il dopoguerra culla ed esempio di relazioni industriali consociative, ha abbandonato il suo modello, a tutti noto come «renano». L'Italia è pronta a fare altrettanto? Lo è la nostra sinistra politica e sindacale, ma anche istituzionale? Abbiamo un esempio recente, che coinvolge in prima persona proprio Napolitano. Quando la Fiat ha sospeso dal lavoro (non dallo stipendio) i tre operai di Melfi sindacalisti della Fiom che avrebbero causato atti di sabotaggio alle linee produttive, il capo dello Stato ha scritto a Sergio Marchionne invitandolo a ripensarci. Marchionne gli ha risposto con garbo, sia in privato sia dal palco del meeting Cl di Rimini. Qui l'amministratore delegato della Fiat ha ripetuto quanto sia divenuto difficile in Italia fare impresa, se le minoranze del sindacato antagonista detengono un potere di veto e ricatto rispetto al sindacato disposto a rimboccarsi le maniche. Marchionne è una star, ma non è certo il solo a denunciare la situazione. Stessa situazione si è verificata in due stabilimenti Indesit del Nord Italia. Alberto Rubegni, amministratore delegato di Impregilo, la prima impresa italiana specializzata in grandi infrastrutture, racconta come ormai le nostre imprese costruttrici siano sempre più costrette a lavorare all'estero: «Per noi significa il 75% del giro d'affari, mentre i nostri competitor nel resto d'Europa generano nel proprio paese almeno il 60%». I motivi? Lungaggini burocratiche, necessità di ricercare il consenso di tutti (Rubegni cita il caso della Tav, «dove tra Torino e Novara abbiamo speso più tempo a ricevere le autorizzazioni che a costruire l'opera»), frammentazioni di poteri tra governo e regioni. I dati più recenti confermano questo stato di cose. Le imprese manifatturiere italiane hanno registrato nell'ultimo trimestre un balzo negli ordini a due cifre, che però si è tradotto in una bassa crescita del Pil e soprattutto in una stagnazione dei posti di lavoro. Eppure secondo un recente studio dell'Ucimu, l'Unione dei costruttori di macchine utensili, da un decennio abbondante le nostre imprese occupano stabilmente il quarto posto tra i produttori mondiali, dietro Giappone, Germania e Cina, ed il terzo tra gli esportatori, dietro Germania e Giappone. E questo nonostante la globalizzazione. Un altro studio del giugno scorso della Confindustria, su tutti i settori industriali, ci dice che in oltre mille prodotti l'Italia è fra i primi tre posti al mondo, che per 288 di essi siamo i primi esportatori mondiali (per un valore di 100 miliardi di dollari) e che per 382 prodotti siamo secondi. Insomma: non mancano né le industrie né la volontà di fare. Solo che siamo costretti a ricorrere sempre più ai mercati esteri. Tutto ciò non nasce dal caso: in dieci anni l'Italia ha perso il 6% in termini di produttività, mentre l'Europa è cresciuta del 7 per cento. Quanto alla competitività, misurata in costo e tempo di lavoro necessario a produrre una unità standard, siano crollati del 26 per cento. Quando Napolitano parla di «ritorno a una politica industriale europea», è a questo che si riferisce? Se insiste, magari giustamente, sulla necessità che si nomini il ministro, sottintende che il designato debba passare il proprio tempo e riunire «tavoli» con decine e decine di sindacalisti, funzionari confindustriali ed imprenditori? Oppure desidera una accelerazione in dossier come il nucleare, la rete a banda larga, le grandi infrastrutture? Ma soprattutto: ora che la Germania ha abbandonato il consociativismo ad ogni costo, qualcuno vorrebbe che proprio noi ne ereditassimo la zavorra?