L'Italia delle scissioni

A favore della scissione del Pdl, e a dispetto dei soli 15 mesi trascorsi dal suo congresso fondativo, gioca addirittura la storia o, se preferite, la tradizione dei partiti italiani.  Che è fatta più di scissioni che di unificazioni. Una rassegna, per quanto parziale e sommaria, non può che partire da Livorno, dove il 21 gennaio del 1921 si consumò nel congresso socialista la rottura propedeutica alla nascita del partito comunista. Ed anche ad accelerare, per reazione, l'avvento del fascismo. La seconda grande scissione, decisamente meno sfortunata della prima, decisiva anzi per l'affermazione della democrazia italiana, risale all'11 gennaio del 1947, quando al congresso socialista di Palazzo Barberini, a Roma, Giuseppe Saragat ruppe con Pietro Nenni per fondare quello che sarebbe diventato il partito socialdemocratico. E che avrebbe permesso l'anno dopo alla Dc di Alcide De Gasperi, con la vittoria elettorale del 18 aprile sul fronte popolare formato da comunisti e socialisti, di ancorare saldamente l'Italia all'Occidente. I socialisti di Nenni impiegarono un po' di tempo per rendersi conto dei guai procurati con il fronte popolare alla sinistra italiana, che cadde sotto l'egemonia comunista e si condannò ad una lunga e sterile opposizione. Dopo la repressione armata della rivoluzione popolare anticomunista del 1956 in Ungheria, destinata peraltro a ripetersi nel 1968 in Cecoslovacchia, Nenni avviò contatti con Saragat e con la Dc. Nacque allora il progetto del centrosinistra, realizzato da Aldo Moro nel 1963 con un governo del quale Nenni divenne vice presidente del Consiglio e Saragat ministro degli Esteri. La comune partecipazione al governo con i democristiani, per quanto fosse costata al Psi l'11 gennaio del 1964 un'altra scissione con la nascita del Psiup, accelerò il processo di riconciliazione fra socialisti e socialdemocratici. Che ottenne un'ulteriore e decisiva spinta dall'elezione di Saragat, alla fine del 1964, a capo dello Stato. «Peppino», che era appunto Saragat, «non ci dà tregua. Vuole l'unificazione a tutti i costi e non c'è verso di fargli capire che i due partiti, il Psi e il Psdi, non sono ancora maturi per questo passo. La periferia ribolle», mi disse sconsolato e preoccupato nei corridoi della Camera il povero Fernando Santi, storico sindacalista socialista, di ritorno dal Quirinale. L'unificazione arrivò il 30 ottobre 1966 in pompa magna, nel Palazzo dello Sport a Roma, alla presenza di ventimila fra invitati e delegati, inebriati all'idea, fra l'altro, di diventare più competitivi nei riguardi sia dei democristiani sia dei comunisti. Mancavano meno di due anni alle elezioni politiche: un tempo ritenuto sufficiente dagli ottimisti per seminare e raccogliere bene. Ma i risultati elettorali del 1968, l'anno che sarebbe diventato quello della contestazione giovanile, e di tutto il resto, lasciò i socialisti unificati al palo dei loro 140 parlamentari uscenti, scesi anzi a 137. Quelli della Dc invece salirono da 392 a 401, quelli del Pci da 251 a 264. La delusione fu cocente e portò il 5 luglio del 1969 ad una nuova scissione, in una scomposta rincorsa fra il Psi e il Psdi per strappare un rapporto «privilegiato» alla Dc. Che un po' perfidamente strizzava l'occhio ad entrambi, per quanto nel Psi ci fossero anche molti che perseguivano rapporti di alleanza con il Pci reclamando «equilibri più avanzati». Seguì una lunga stagione di instabilità politica, aggravata da difficoltà economiche e di ordine pubblico, sfociate quest'ultime nel terrorismo. I socialisti si ridussero, in entrambe le loro versioni di partito, ad un ruolo subalterno, schiacciati dagli accordi diretti fra la Dc e il Pci nel periodo della cosiddetta solidarietà nazionale, sino a quando non sopraggiunse nel Psi un benefico ciclone chiamato Craxi, durato dal 1979 al 1992. Che tuttavia non sfociò né in una nuova unificazione socialista, né in quell'ancora più ambizioso progetto di ricostruire, dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989 e il fallimento del comunismo, «l'unità socialista» infrantasi a Livorno nel 1921. Ben altro era in arrivo per il povero Bettino, ma anche per la sinistra. Che di certo non gode oggi di condizioni di salute migliori degli avversari. L'ombra della scissione che incombe sul Pdl di Silvio Berlusconi e di Gianfranco Fini non può far dimenticare quella sul Pd di Pier Luigi Bersani, dal quale sono già usciti Francesco Rutelli ed altri esponenti giunti due anni fa dalla Margherita e da quel che era rimasto della Dc e poi Ppi dopo una lunga serie di scissioni. Che cominciarono nel 1994 con il Ccd di Pier Ferdinando Casini e Clemente Mastella, cui seguì il Cdu di Rocco Bottiglione nel 1995. Non parliamo delle scissioni consumatesi a sinistra all'insegna della «rifondazione comunista» dopo lo scioglimento del Pci, o di quelle subite a destra da Fini prima di confluire l'anno scorso nel Pdl. Ce n'è stato, ce n'è e ce ne sarà insomma per tutti. Sotto a chi tocca. Calde o fredde che siano, le unificazioni dei partiti in Italia non durano.