Anche l'Italia dovrà stringere la cinghia

seguedalla prima (...) del maxi-piano per salvare l'euro sarà un giro di vite sulle finanze pubbliche non solo dei paese a rischio, ma anche di quelli più o meno forti: dalla Germania alla Francia, fino appunto all'Italia. La cosa era in parte prevista, e Giulio Tremonti aveva messo in cantiere una manovra di 27 miliardi nei prossimi due anni. Ma ora si stringono i tempi. E' stato lo stesso ministro dell'Economia, al termine della maratona notturna di domenica, ad annunciare che la riunione della task force dei ministri Ue per riformare il patto di stabilità con viene anticipata da fine maggio a domani. Su richiesta della Germania, che sul salvataggio dell'euro ha sacrificato l'autonomia della Bce inducendola a comprare sul mercato titoli pubblici e obbligazioni sotto tiro della speculazione: un fatto inaudito per chi ha nella Costituzione l'obbligo di difesa dall'inflazione, e per la Bundesbank, il cui presidente Axel Weber avrebbe fatto fallire la Grecia e che nel consiglio direttivo della Bce pare abbia votato contro l'invito alle banche centrali ad acquistare titoli più o meno tossici. Non solo. Come i cittadini tedeschi (e forse anche quelli inglesi; loro però sono fuori dall'euro) la pensino sul salvataggio dei paesi poco virtuosi, lo si è capito dalle elezioni in Nord Reno-Westfalia, il più popoloso e produttivo dei land delle repubblica federale: una sonora sconfitta per Angela Merkel che ha così perso la maggioranza del Bundesrat, uno dei due rami del Parlamento, e ha commentato: «Abbiamo capito la lezione». Capita la lezione, i tedeschi si accingono a chiedere ai partner europei di sottoporsi ad un esame di austerity. E' la contropartita economica, politica, ma soprattutto di principio per il via libera dato l'altra notte. La Grecia ha già varato misure draconiane, almeno per loro, e non si può chiedere di più: dal taglio di pensioni e stipendi ad aumenti dell'Iva. Spagna e Portogallo, due degli altri «Pigs» (il quarto è l'Irlanda) si accingono a varare manovre di contenimento del deficit, che per entrambi sfiora il 10 per cento del Pil. Il premier socialista spagnolo José Zapatero mette già le mani avanti: «Non toccherò le pensioni né gli stipendi pubblici, non aumenterò le tasse. Del resto il nostro debito è migliore di molti altri». Zapatero dovrà probabilmente, come il suo collega (sempre socialista) José Socrates del Portogallo, rinunciare ad un piano di infrastrutture che doveva rilanciare l'economia; e probabilmente non potrà fare a meno di incidere anche sul welfare. La stessa Francia, alla quale sembra alludere (assieme all'Italia) Zapatero, ha annunciato che nei prossimi tre anni la spesa pubblica verrà bloccata sotto l'inflazione. Nicolas Sarkozy è alle prese con un deficit dell'8 per cento, ed un debito stimato ufficialmente nell'84 per cento del Pil, ma sul quale gravano gli effetti degli aiuti pubblici concessi un anno fa a banche e industrie. Perfino la virtuosa Germania ha un debito che ormai viaggia verso l'80 per cento, ed un deficit pari a quello italiano, il 5 per cento. Ed anche per Berlino vale il problema dei sussidi alle banche. In mezzo a questa tenaglia ci siamo noi italiani. Che nella crisi globale ce la siamo cavata, non finanziando banche e altre aziende, ma attingendo a fondi statali e regionali per sostenere la cassa integrazione. Tremonti e Silvio Berlusconi hanno ragione quando dicono che l'Italia non è più un paese a rischio, però il nostro debito supera il 118 per cento del Pil, il secondo d'Europa dopo la Grecia. Se la speculazione, anziché attaccare Atene, Madrid e Lisbona, avesse preso di mira noi, rifinanziare quel debito con Bot e Btp sarebbe stato impossibile. Dunque è anche a noi che verrà chiesto di stringere la cinghia. La manovra di Tremonti mira a ricondurre il deficit sotto il 3 per cento in tre anni e ridurre il debito di almeno due punti. Se anche bastasse, 27 miliardi vanno trovati. Dove? Il Tesoro ha nel mirino la sanità, che ha i suoi punti critici nel Lazio, in Campania e in Sicilia. Poi gli enti locali, che spendono più di quanto incassino. Quindi le pensioni d'invalidità, dove certo si può tagliare. Infine i pubblici dipendenti. Per tutti i dossier c'è una ragione, a cominciare dal pubblico impiego, che ha retribuzioni mediamente più alte del lavoro privato, più stabilità e nei due ultimi anni è riuscito in gran parte a mantenere il potere d'acquisto: ovviamente stiamo parlando di medie, non di singoli casi o dei precari che ormai non mancano neppure sotto lo Stato. Con tempi più lunghi ci dicono che il federalismo fiscale avrebbe messo a posto le cose da solo. Ma perché vada a regime, facendo sì che regioni e comuni si autofinanzino, occorrono anni ed un costo iniziale tuttora da quantificare. Dunque anche qui si rischia il rinvio. Di toccare nuovamente le pensioni il governo ha sempre detto di non voler sentire parlare. Probabilmente le promesse riduzioni di tasse slitteranno ancora un po'. Forse un bel po': è già molto non averle aumentate. Restano i quattro capitoli che abbiamo elencato: dipendenti pubblici, pensioni d'invalidità, spese comunali e sanità. O anche qualche aumento d'imposta laddove avrebbe un senso: si parla di alcolici e tabacco e c'è chi propone una cedolare del 20 per cento sugli affitti (che oggi, per chi non agisce in nero, si sommano all'imponibile). E magari di mantenere la promessa di ridurre i consiglieri regionali, provinciali e comunali. Alle prossime amministrative, s'intende. E a proposito: che fine ha fatto l'abolizione delle province? Marlowe