«Non siamo corporativi, l'Associazione nazionale magistati vuole parlare con tutti.

Conqueste parole Luca Palamara, presidente dell'Anm, intervenendo ad un forum a palazzo Wedekind sede de Il Tempo, ha voluto controbattere a chi vuole l'associazione sempre più militante che non garantista. E proprio citando il titolo d'apertura del nostro quotidiano del 18 ottobre «È nato il partito dei magistrati», Palamara ha voluto spiegare la sua posizione: «Non possiamo continuare a vedere la magistratura come maggior partito d'opposizione. È una affermazione in cui non ci ritroviamo. Al tempo stesso però sarebbe sciocco negare che, in base a quello che è successo in Italia negli ultimi 15 anni, bisognerebbe pensare ad affrontare un serio dibattito sulla giustizia che tenga separato ciò che riguarda le inchieste giudiziarie e la loro ipotetica strumentalizzazione da un serio discorso sulla riforma della giustizia». Non le sembra però che la magistratura invada ambienti che non le competono? «No. Nessuno intende sconfinare dal proprio ruolo che è quello di applicare la legge imparzialmente. Noi vogliamo solo fornire un contributo sulla riforma. E vi faccio un esempio: il 6 giugno 2008 il neonominato Guardasigilli, Angelino Alfano, partecipò al nostro congresso nazionale. Già allora si parlava di riforme e lui disse che "il programma dell'Anm è uguale a quello del Governo. Anche noi vogliamo migliorare il sistema giustizia e renderlo più vicina agli interessi dei cittadini". Con quello spirito noi abbiamo continuato a lavorare: basta con processi lunghi e con le cause rinviate a lungo tempo. Questo è il primo punto su cui intervenire». E ora che rapporto avete con il ministro? «Penso sia stato uno dei ministri più ben accolto dalla magistratura. Poi le strade si sono separate. Quando? «Da quando il dibattito sulla riforma si è fissato su altri temi come le intercettazioni, il disegno di legge sulla sicurezza, la separazione delle carriere e l'obbligatorietà della azione penale. Poi, dopo la sentenza sul Lodo Alfano e quello Mondadori, si è assistito ad uno spettacolo molto sgradevole, per usare un eufemismo, cioè l'indebita intrusione nella vita privata di un magistrato. Anche dopo questo fattaccio il nostro atteggiamento è cambiato e con forza abbiamo detto "no" a una riforma che fosse punitiva nei confronti della magistratura». Non crede però che esista un problema a monte dato che delle ultime cinque legislature tre si sono interrotte proprio per lo scontro tra politica e magistratura? «Parliamoci in modo molto chiaro. Il dibattito sulla giustizia non dobbiamo ancorarlo a sole vicende personali. E non dimentichiamo che alla fine del 2008 si ribaltò la situazione e i giudici iniziarono a indagare sulle Giunte rosse. Il problema di fondo è che la magistratura è chiamata a svolgere indagini sul cosiddetto potere politico». Nessuno lo vieta. Quello che si critica è il metodo con cui le toghe entrano nel mondo della politica. Come si potrebbe risolvere il problema? «Sarò monotono ma servono le riforme costituzionali. Nel 1948 venne stabilito che la magistratura fosse un organo autonomo e indipendente nel quale inserire una componente laica che fungesse da contrappeso nel sistema di auto governo autonomo. Poi quando nel 1993 il Parlamento decise di garantire l'immunità si iniziò a limitarne il potere. Ora bisogna capire quale sistema era il migliore nell'ambito dell'accertamento dei reati. Infine, da quando vent'anni fa è entrato in vigore il codice di procedura penale l'attenzione si è spostata tutta al momento delle indagini preliminari a un processo, relegando il dibattimento a un ruolo di minor importanza». Alcuni magistrati però «giocano» proprio su questo aspetto. «Quando si svolge un'indagine di tipo penale usare la parola gioco per descrivere l'attività del magistrato mi ripugna. Ma tornando al discorso di prima si è passati da una difesa nel processo a una difesa dal processo. Mi difendo contro il giudice. Così facendo, agli occhi dei cittadini, si delegittima l'attività giudiziaria. Poi, siamo anche disposti a fare autocritica se ci sono stati errori. Siamo pronti a ammetterli e a riconoscerli. Ma è anche vero che se i politici commettono fatti che hanno rilievo penale non possiamo astenerci dall'indagare». Quando avete fatto autocritica? «È successo sul caso legato alle procure di Salerno e Catanzaro». Però in quel caso i magistrati sono stati giudicati da magistrati. Tutto all'interno dello stesso sistema senza controllo dall'esterno. «L'irresponsabilità del magistrato che può fare quello che vuole e rimane al suo posto è un problema che stiamo affrontando seriamente. Per questo serve anche al nostro interno un'autoriforma. I primi passi sono stati già fatti nel 2006 con la riforma Castelli. La magistratura la osteggiò perché ritenuta politica. Poi il Csm ha cercato di dare un'attuazione costituzionalmente orientata e ha permesso di passare da un sistema legato all'anzianità - quindi carriera, assistenzialismo e demerito - a uno imperniato sulla valutazione quadriennale e sulla scelta dei capo degli uffici basata sul merito e sulla professionalità». Ma chi è che vi giudica? «I controlli sono fatti in prima istanza dai consigli giudiziari e poi dal Csm. Penso che, proprio su questo terreno, dobbiamo dare una risposta all'esterno. Noi vogliamo valorizzare il merito e ancora di più saper scegliere i capi dei vari uffici che sono sempre più nomine lottizzate. Tutto questo è il male della magistratura. Noi oggi vogliamo che il capo ufficio sia il più bravo e meritevole non quello che porta una casacca. Non vogliamo demonizzare le correnti ma bisogna evitare che degeneri il sistema magari imponendo che la scelta dei candidati al Csm parta dal basso e non dall'alto». Una provocazione. Non le sembra che a un cittadino convenga entrare in un tribunale italiano da colpevole piuttosto che da innocente? «Al di là di colpevolezza e innocenza, noi dobbiamo ragionare se un fatto è ascrivibile o meno a una persona. Poi, nel caso in cui l'imputato sia un politico, bisogna accertarsi che l'indagine sia fatta da chi ha un elevato livello di professionalità. Ma questo non basta ancora». Che cosa manca? «Il messaggio che l'Anm vuole dare è che ci sia una giustizia moderna. Non dobbiano assolutamente abbassare la guardia nelle vicende che riguardano la libertà personale. E per arriare a questo serve una riforma del processo penale, l'informatizzazione dei processi e la razionalizzazione dei reati» Cioè? «Non è possibile che per una guida senza patente ci siano tre gradi di giudizio». E sulle intercettazioni telefoniche cosa pensa? «In alcune zone d'Italia, dove la gente non parla, se non si ricorre alle intercettazioni non si catturerebbe nessun ladro. Quello che ancora più singolare è il fatto che le vogliono abolire proprio nel momento in cui esaltano la sicurezza. Usiamole ma facendo attenzione a non far uscire fatti e situazioni di persone che non c'entrano nulla con il processo. Quindi, discutiamo e troviamo il limite entro cui usarle». Una sorta di «dateci un tavolo e apriamo la trattativa?» «Noi non diciamo mai no a nessuno. Il Parlamento faccia le sue legge in autonomia e noi possiamo dare il nostro contributo» Lei ha detto che non ci sono magistrati rossi o neri, però a Roma un giudice si è rivolto ai suoi colleghi chiamandoli "compagni". Questo che cos'era? «Un evento disdicevole. È stata un'affermazione fatta da un collega molto stimato ma la sua affermazione non la possiamo accettare». Come giudica il progetto della separazione delle carriere? «Discutiamone. Ma c'è un problema di fondo perchè se separiamo i pubblici ministeri creiamo un'ulteriore corporazione».