Canale 5 e un giudice trasformato in vittima

La politica dei calzini turchesi. È l'ultimo grido (nel senso di disperato) che lancia Dario Franceschini, tentando l'impossibile rimonta su Pierluigi Bersani. Ha confessato di indossare l'ardito capo di abbigliamento per solidarizzare con il giudice Raimondo Mesiano il quale, com'è noto, era stato sorpreso dalle telecamere di «Mattino5», contenitore televisivo di Mediaset, con le singolari calze ai piedi: così lo scoop giornalistico più scemo del secolo è diventato un tormentone per la sinistra a corto di argomenti. Che Franceschini si attacchi a tutto per dimostrare la sua esistenza di leader precario e molto provvisorio del Pd, non stupisce più di tanto. Ma che un programma giornalistico di Canale 5 si danni l'anima per metter in cattiva luce un magistrato che pochi giorni fa ha emanato una discutibile sentenza contro la Mondadori, non soltanto sorprende, ma si può capire soltanto con la frenesia di zelanti giornalisti tesi a dimostrare a Berlusconi di non essere secondi a nessuno quando si tratta di delegittimare un «avversario», posto che un magistrato non è mai tale neppure quando commina pene discutibili. Il risultato di tale poco encomiabile operazione giornalistica, che non ha fatto neppure ridere tanto era penosa la confezione del servizio del pedinamento di Mesiano, è che questi è diventato perfino simpatico a buona parte degli italiani. Addirittura, se non è proprio un eroe per qualcuno, poco ci manca. Bel colpo da parte di Videonews, la testata che coordina i servizi esterni dell'ammiraglia di Mediaset. Non sappiamo se Berlusconi gliene sarà grato. Di certo non possono non dirsi sconcertati coloro i quali, pur criticando per come può essere criticata una sentenza prima che siano rese note le motivazioni, si trovano adesso di fronte ad una nuova icona, suo malgrado, dell'antiberlusconismo. Ce n'era proprio bisogno? Forse è venuto il momento che tutti i protagonisti e le comparse della vita pubblica, depongano le armi. Che gli avversari siano diventati nemici è una regressione della lotta politica a puro imbarbarimento da cui scaturisce un clima di annientamento cui non sono estranei, con tutta evidenza, i criminali «avvertimenti» a Berlusconi, Fini e Bossi che confermano le preoccupazioni espresse nei giorni scorsi dai servizi segreti per l'incolumità del presidente del Consiglio. A rischio, comunque, non sono soltanto alte cariche dello Stato, ma, sia pure in altre forme, è la nostra vita associata sottoposta a colpi di maglio tirati incuranti delle conseguenze.   Non è vero, come ipocritamente si dice, che non ha alcuna importanza sapere chi ha iniziato per primo la mattanza mediatica amplificatasi nelle forme che stiamo conoscendo. È dal giorno dopo le ultime elezioni politiche che è cominciata a montare la demonizzazione dei vincitori da parte dei vinti, soprattutto attraverso una manichea azione di discredito che ha colpito in primo luogo il premier e numerosi esponenti del governo additati all'opinione pubblica come «usurpatori» di democrazia, oltre che «corrotti». Sicché la guerra di tutti contro tutti è stato l'esito naturale dell'avvelenamento dei rapporti politici e sociali. Adesso non ci resta che raccogliere rancori, disperazioni, inimicizie totali senza sapere che cosa farne.   Qualcuno, autorevolmente e generosamente, invita a recuperare un minimo di responsabilità collettiva. Sarebbe bello poterci svegliare un giorno e leggere titoli dei giornali che non somiglino ad insulti o a chiamate alle armi. E neppure imbatterci in programmi televisivi sui calzini di un magistrato per dire della sua presunta bizzarria. Sì, sarebbe bello. Saremmo in un'altra Italia.