"Siamo stufi di chiacchiere da salotto"

«Stronzate». Il militare di stanza in Afghanistan pronuncia la parola con il massimo disprezzo. «In Italia parlano parlano - continua - tutti esperti di Afghanistan. Tutti scienziati dell’arte militare. Ma stanno al sicuro in Italia». I nostri ragazzi e ragazze in divisa non ci stanno. Sono stanchi di tanta retorica dell’exit strategy, eufemismo anglossassone per dire «Scappiamo». Italico tormento da grande fuga. Ma i nostri soldati, quelli che oggi sono ambasciatori d’Italia in giro per il mondo e in tanti teatri di crisi, non la pensano così. Sono professionisti addestrati e consapevoli dei rischi. Obbediscono alle direttive del governo in carica, qualsiasi sia il colore e l'orientamento, ma non possono diventare carne da macello. «Tutti quei discorsi sul ritiro non si fermano nel salotto televisivo - commenta un altro militare - In Afghanistan come prima in Iraq certe trasmissioni le vedono e le commentano». E poi le sfruttano a scopi strategici. I talebani non sono straccioni con camicione e barba lunga, sono esperti informatici e maestri della comunicazione oltre che guerriglieri con decenni di pratica. Non è un caso che ieri a Kabul i giornali titolavano «Silvio Berlusconi parla di ritiro dopo la morte di sei italiani». Un invito ai jihadisti: «Colpite gli italiani così se ne andranno». «Abbiamo la nausea di questi discorsi. Ci scusi dobbiamo continuare il nostro lavoro. No, non abbiamo visto i telegiornali ieri sera. Il nostro tempo libero ieri lo abbiamo trascorso alla camera ardente». Parole che chiudono ogni discorso. E li immaginiamo mentre indossano elmetto e giubbotto antiproiettile, un attento sguardo ai «warning» di giornata (gli allerta forniti dall'intelligence) e poi via sul Lince verso il loro lavoro. «I warning che parlano di Toyota di kamikaze ci sono tutti i giorni ma noi non possiamo nasconderci e neppure sparare a ogni auto sospetta che incrociamo», spiegano i soldati. A Kabul come a Naqura in Libano o in Kosovo contano parole dal suono antico come onore, lealtà, rispetto. Patria e bandiera non sono solo ammennicoli da tirar fuori quando l'Italia vince la Coppa del mondo. Lo scudetto tricolore sul braccio è simbolo di appartenenza e di valore. Oggi a Kabul nessuno pensa a tornare a casa. Neppure quelli che aspettano una licenza. E ieri mattina di buon ora le pattuglie dei parà hanno lasciato Camp Invicta a Kabul come nella provincia di Herat, Camp Arena e le altre basi per aiutare a ricostruire l'Afghanistan. «Abbiamo ripreso l'attività operativa così come era programmata in primo luogo per rispettare il sacrificio dei nostri caduti» conferma il colonnello Aldo Zizzo comandante di Italfor. E le polemiche scoppiate in Italia? «Non pervenute. A noi basta avere la vicinanza del Presidente della Repubblica, del ministro della Difesa e del governo tutto che legittima quello che stiamo facendo». Aiutare gli afghani. «Infatti. L'attività è a tutto campo: sicurezza, aiuto umanitario, governance». Senza ascoltare i «soloni» che parlano dei militari come soldatini di piombo da manovrare sulla carta geografica.