Stato e mafia "trattano" attraverso i pentiti

Caro direttore, nelle ultime settimane si è riaperto il dibattito che si sta sviluppando attorno a ciò che successe nel 1992 in quella che in molti ricordano come la «stagione delle stragi». Per questo ho deciso di dire la mia. Sono passati diciassette anni dalla strage di via D’Amelio, dove furono ammazzati il giudice Paolo Borsellino e i cinque agenti della scorta.  Per diciassette anni fior di magistrati, pubblici ministeri, giudici di primo grado, giudici d'Appello, giudici di Cassazione, hanno creduto che a portare sul luogo della strage l'auto imbottita di tritolo sia stato un tale Vincenzo Scarantino, un meccanico analfabeta, scartato al servizio militare per schizofrenia, tossicodipendente e fidanzato con un transessuale. Una trentina di magistrati hanno creduto che Cosa Nostra possa aver affidato a un personaggio di tal fatta il compito di innescare la strage, e sulla sua presunta «confessione» e la sua chiamata dei correi hanno basato ben tre processi, il Borsellino uno, il Borsellino bis, il Borsellino ter, in primo grado e in Appello e in Cassazione, e hanno distribuito decine di anni di carcere e una mezza dozzina di ergastoli. Adesso accade che, dopo diciassette anni, un vero mafioso, veramente affiliato a Cosa Nostra, un vero «pentito» ha veramente confessato e ha dimostrato in maniera irrefutabile che a rubare quell'auto e a portarla imbottita di tritolo sul luogo della strage non è stato Scarantino ma è stato lui. Ciò fa crollare tutto l'impianto dei tre processi Borsellino ed impone ai magistrati la riapertura delle indagini. Sarebbe opportuno cominciare con la revisione dei processi (forse) sbagliati e la rimessa in libertà degli innocenti (forse) ingiustamente condannati ed (eventualmente) affrettarsi a individuare e a punire i responsabili di questo possibile (ma gravissimo) errore giudiziario e a cercare finalmente i veri autori della strage, cominciando con gli esecutori materiali come si fa in tutti i processi (dopo diciassette anni non sappiamo nemmeno chi è stato a premere il pulsante per far esplodere il tritolo), senza risollevare il polverone dei «mandanti occulti», dei «politici collusi» e degli «agenti segreti deviati», della «trattativa» tra lo Stato e la mafia, del «papello», cioè l'elenco delle richieste della mafia allo Stato come condizione per smettere le stragi, e della «agenda rossa» di Borsellino, registro di chissà quali tremendi segreti e scomparsa al momento della strage, cioè tutto il ciarpame che in questi diciassette anni ha impedito la scoperta dei veri responsabili della strage e ha provocato (forse) questi clamorosi e incredibili errori. Sembra impossibile, ma è proprio così. Hanno ricominciato come allora, diciassette anni fa. Sarebbero iscritte nel libro degli indagati misteriose «presenze» sul luogo della strage di «poliziotti» o «agenti segreti», dicono una decina. Ma non era già accaduto con il più famoso poliziotto di Palermo, Bruno Contrada, un dirigente generale della Polizia di Stato, alto funzionario del Sisde, il servizio segreto civile, già Capo della Squadra Mobile di Palermo, Capo della Criminalpol della Sicilia, Capo di Gabinetto dell'Alto Commissario Antimafia, indagato quale autore o mandante della strage di via D'Amelio, anzi di tutte le stragi? Non cominciarono con il sostenere la presenza di Contrada sul luogo della strage al fine di sottrarre l'agenda rossa dalla borsa di Borsellino fino a conclusioni come queste pronunciate dal dottor Luca Tescaroli nel corso della sua requisitoria dinanzi alla Corte d'Assise di Caltanissetta per l'attentato nella villa dell'Addaura di Palermo in danno di Giovanni Falcone: «È giocoforza ritenere che le accuse nei confronti del dottor Contrada si collochino a pieno titolo nel contesto ideativo dei tre delitti: l'Addaura, la strage di Capaci e quella di via D'Amelio. È dato inferire una comune finalità preventiva nell'eliminazione di questi obiettivi di questi fatti stragisti: neutralizzare o comunque condizionare le fonti d'accusa nei confronti del dottor Contrada, colpendo gli interlocutori istituzionali...».   E cioè, Contrada avrebbe partecipato all'ideazione del tentativo di uccisione di Falcone all'Addaura e poi all'ideazione della strage di Capaci e dell'assassinio di Borsellino, perché sia Falcone che Borsellino avrebbero saputo dai «pentiti», tra cui il famigerato Gaspare Mutolo, che Contrada era colluso con la mafia. E non indagarono segretamente Contrada per strage, mentre era stato già arrestato e veniva processato per concorso esterno in associazione mafiosa? Per poi archiviare, non fosse altro per aver avuto la prova che, al momento della strage di via D'Amelio Contrada era in barca, al largo di Favignana, con almeno dieci persone, tra cui un questore e un capitano dei carabinieri. Ciò non impedisce, diciassette anni dopo, di riproporre le accuse di Mutolo a Contrada, e indirettamente all'allora capo della Polizia Parisi e a Nicola Mancino, allora ministro dell'Interno: Mancino, proprio mentre Mutolo raccontava a Borsellino di Contrada colluso, avrebbe interrotto l'interrogatorio e convocato Borsellino al Viminale per fagli trovare nella sua stanza Contrada e Parisi. E Borsellino avrebbe commesso la grave scorrettezza di non verbalizzare le accuse di Mutolo e di tenersele per sé, magari annotandole solo nella sua agenda rossa (che Contrada, dalla barca, avrebbe fatto sparire). C'è chi, diciassette anni dopo, ha il coraggio di riproporre queste assurdità e di aggredire, non potendo più prendersela con Contrada, Nicola Mancino, ora vicepresidente del Csm. A questo punto, perché non riproporre (e c'è già chi ci pensa) le tesi dell'accusa a proposito dei «mandanti occulti», così come furono proposti nella sua requisitoria dal pm Anna Maria Palma a conclusione del processo Borsellino ter: «È sufficientemente provato quanto ha rivelato il boss pentito Salvatore Cancemi, e cioè che c'erano stati rapporti stretti tra Totò Riina e Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri, i quali sarebbero persino venuti a Palermo per parlare con il Capo di Cosa Nostra alla vigilia delle stragi... La strage va ricondotta anche a responsabilità esterne a Cosa Nostra e va inquadrata in una sfida-ricatto rivolta al Paese per ottenere la revisione del maxiprocesso e l'abolizione dell'ergastolo da nuovi referenti e nuovi soggetti politici... Sono sufficientemente provati i rapporti indicati da Cancemi nel periodo delle stragi tra il Capo di Cosa Nostra e Berlusconi e Dell'Utri... sicché c'è da approfondire una sola cosa: se la strage venne compiuta da Cosa Nostra su richiesta dei soggetti esterni indicati da Cancemi, o se invece la strage sia stata fatta nella inconsapevolezza di questi ultimi, nella convinzione tuttavia di fare loro un favore». Si tratta di un'ipotesi archiviata dalla magistratura stessa e che oggi viene riproposta. Perché? Nella migliore delle ipotesi, Berlusconi e Dell'Utri erano comunque in rapporti con Riina e Cosa Nostra, e Falcone fu ucciso per fare loro un favore (e magari Borsellino l'aveva capito e l'aveva scritto nell'agenda rossa, e per questo fu ucciso anche lui e l'agenda è sparita): è questo che stanno per riproporre, partendo dai nuovi indagati e dall'«agente segreto con la faccia sfigurata« e dall'«americano» che dirige le operazioni da Villa Igea? E che dire delle «rivelazioni» del figlio di Vito Ciancimino sulla «trattativa» tra lo Stato e la mafia e sul «papello»? Non vollero credere al padre, che le cose le sapeva veramente e che chiese invano di essere ascoltato dalla Commissione parlamentare antimafia (con buona pace dell'improvvisamente redivivo Luciano Violante) ma che fece in tempo a scrivere, prima di morire: «C'è un movente occulto nell'omicidio di Salvo Lima più prettamente politico, che trascende gli interessi di Cosa Nostra. Sono certo che vi era qualcuno particolarmente ostile alla candidatura di Andreotti al Quirinale. Si tratta di colui che io penso potrebbe essere stato l'"architetto" del disegno politico che tramite l'omicidio di Lima e soprattutto le modalità eclatanti dell'uccisione di Falcone, aveva come obiettivo di sconvolgere il Parlamento, determinando le condizioni per impedire l'elezione di Andreotti al Quirinale».   Non vollero ascoltare Ciancimino padre, corrono tutti indietro al figlio, che niente può sapere veramente e che è terrorizzato che lo mettano in galera e gli portino via i piccioli lasciatigli dal padre. E lo usano spregiudicatamente, in particolare nell'ennesimo processo contro il generale Mario Mori, che ha avuto il torto di catturare il Capo di Cosa Nostra e di far cessare le stragi. In un Paese in cui l'antimafia si basa essenzialmente sulla legge per i «pentiti», che altro non è che la trattativa continua e perenne, stabilita e regolata per legge, tra lo Stato e la mafia (tu parla, dimmi ciò che mi piace sentire e io ti libero non solo dal carcere duro previsto dal 41bis, ma dal carcere tout-court e ti rimetto in libertà, nonostante i tuoi ergastoli e senza bisogno di revisione dei processi e anche ti proteggo, te e i tuoi cari e ti passo uno stipendio), che bisogno c'è di scrivere «papelli» per chiedere ciò che già ti dò, per mandarli ai «politici» che già sono collusi con te? Questa storia della «trattativa» e del «papello» è una farsa senza fine, un tormentone che ha l'unico scopo di giustificare i fallimenti dell'antimafia giudiziaria e mai fallimento fu tanto evidente come nel caso della strage di via D'Amelio: non riesco a vincere la guerra alla mafia, recita il povero giudice, perché lo Stato tratta e si mette d'accordo con la mafia sopra la mia testa. È quello che proclama a gran voce l'altro redivivo per l'occasione, quel Pino Arlacchi grande esperto, fallito vicepresidente dell'Onu per la lotta alla criminalità e oggi deputato dipietrista: non era lui che sosteneva che non si vinceva lo lotta alla mafia perché Leonardo Sciascia con i suoi libri e i suoi articoli faceva il gioco dei mafiosi?