Ora al Pd non resta che Letta

(..) ma sarà difficile che un segretario che ha espulso la politica dall'orizzonte tematico del principale partito di opposizione ce la faccia. Bersani sta scaldando i motori da sei mesi. Anna Finocchiaro spera che D'Alema la prescelga. Il nome «nuovissimo» non c'è e neppure fra i quarantenni si affaccia il candidato in grado di trarre il Pd dalla crisi d'identità. Per ricostruire serve un personaggio che sia in grado di parlare il linguaggio del riformismo. Non deve essere uno che ha già scalato tutte le vette di un partito di sinistra. Ecco perché, malgrado le ambizioni e la fama di gran lavoratore, non ce la farà Piero Fassino. Il nuovo leader, per essere davvero nuovo, non deve aver avuto incarichi nel Pci. Meglio ancora se non è mai stato iscritto a quel partito, oppure se in quegli anni non ricopriva ruoli di direzione nazionale. Forse solo in questo Franceschini ha segnato una vera novità. Ma non potrà venir fuori neppure dalla covata dei cattolici di sinistra. Da quello che si è visto in questi anni, il cosiddetto cattolicesimo democratico ha prodotto leader molto radical. L'area prodiana non ha successori del professore e poi è troppo contigua con il dipietrismo. Rosy Bindi sembra troppo estremista persino agli elettori di Nichi Vendola. Il leader dell'ultima spiaggia del Pd deve avere un vero uso di mondo. Non un personaggio dei salotti ma uno abituato a dare del tu ai potenti, che non soffra di complessi di inferiorità rispetto ai giornali e al mondo dell'impresa e della grande finanza. Un riformista riconosciuto, di quelli che piacciono anche all'altra parte così da chiudere l'ultimo scampolo di una stagione di odio e di contrapposizione. Non è facile trovare un leader così. Eppure ce ne sono almeno due a disposizione. Ce ne è uno giovane, riformista doc, con un profilo kennediano e una caratura da intellettuale prestato alla politica. È di buona famiglia, è di sinistra per quel che basta, sa di economia, si muove a suo agio fra economisti e gente di potere. Enrico Letta ce la può fare. Un tempo anche Massimo D'Alema gli avrebbe dato il suo voto. Oggi non si sa. Ma ha l'immagine giusta per voltare pagina con i suoi quarantenni ben portati. L'altro nome rimanda a un leader un po' più avanti negli anni ma con una biografia invidiabile. È Sergio Chiamparino, sindaco di Torino. Riformista anche nel Pci in cui non ebbe ruoli nazionali, beniamino del partito del Nord, accompagnato dalla fama di uomo concreto, in grado di discutere a tu per tu con la gente della finanza e della grande impresa, Chiamparino darebbe al Pd l'immagine di un riformismo europeo nel solco delle moderne socialdemocrazie. Se il Pd sceglie fra questi due, casca bene e può risorgere. Sono due «cavalli scossi» senza padroni e debiti con il passato. Potrebbero persino essere una coppia, l'uno al partito e l'altro candidato premier. Dietro di loro c'è il vuoto o il passato che è passato.