C'è nonostante tutto ancora qualcuno che se ne appropria indebitamente e che non ha il diritto di sentirlo come suo.

Maio non me la sento di accettare nessuna di queste prospettive. Ne «I demoni», Dostoevskji introduce la figura di Shatov, il profetico populista russo che, pur professandosi ateo, dichiara: «Io crederò in Dio»: intendendo dire che si dichiarerà con fede cristiano nel momento in cui sentirà che il Cristo e l'anima profonda della Russia sono diventati tutt'uno. Parafrasando Shatov, anch'io celebrerò volentieri il «mio» Venticinque Aprile: e lo farò con viva e sincera commozione, ma solo nel momento in cui mi sembrerà che esso sia riuscito davvero a riunire tutti gli italiani, senza esclusioni, senza riserve e senza ipocrisie. Quel giorno mi sembra a tutt'oggi lontano. E mi spiego. Su «La Repubblica» del 22 aprile, Giorgio Bocca ha dichiarato che «La Resistenza non ha colore» perché ha riunito tutti coloro che amavano la patria. Il ministro La Russa sostiene che i partigiani comunisti non hanno diritto a rivendicare tale retaggio in quanto combattevano per instaurare in Italia una dittatura; Bocca gli ha replicato che sovente la scelta di entrare in questo o in quel reparto partigiano non era dettata dall'ideologia, ma dalla situazione febbrile e confusa di un momento difficile o dal desiderio di seguire il proprio comandante o il gruppo degli amici cui si era legati. Giusto. Ma allora bisogna approfondire l'analisi in due precise direzioni. Primo. La varietà e la complessità del movimento di resistenza e di liberazione. Le ideologie potevano non contare sempre e per tutti allo stesso modo, ma c'erano e pesavano eccome. Se l'obiettivo era sconfiggere il nazifascismo, non nascondiamoci dietro a un dito: esso è stato raggiunto anche grazie al formidabile e determinante contributo del mondo comunista, dai soldati sovietici di Stalin ai garibaldini italiani. La resistenza e la liberazione sono patrimonio anche di quelle forze politiche: non si possono «ripulirle» fingendo che esse siano state esclusivo esito del pensiero liberaldemocratico. Il comunismo non fu un incidente di percorso: fu per gli antifascisti un alleato prezioso e un coprotagonista in quella lotta. Secondo. Perché quel che si deve riconoscere per i partigiani non dovrebbe valere anche per i «repubblichini»? Perché — nonostante le testimonianze memorialistiche ormai ingenti — si continua ufficialmente a ostracizzare la loro memoria considerandoli in blocco tutti, sempre e soltanto degli sgherri della tirannia e dei collaboratori obiettivi della politica di sterminio nazista? Sappiamo bene che molti finirono per caso a Salò, nello sbandamento generale: si trovavano in questo piuttosto che in quel reparto l'8 settembre, avevano certi comandanti e certi amici piuttosto che altri. Alcuni, dinanzi allo sfacelo e allo spettacolo indecoroso di un re in fuga e di un popolo lasciato senza guida, optarono di continuare a combattere per la libertà; altri, scelsero di farlo per l'onore. Vi furono soldati che si erano battuti contro i tedeschi l'8 settembre a Porta San Paolo e che aderirono alla RSI; vi furono camicie nere magari decorate della croce di ferro tedesca che diventarono partigiani. Poi, entrambe le parti ebbero anche i loro criminali: è un altro discorso. Ma la maggior parte dei combattenti - partigiani, «repubblichini», soldati del «regno del Sud» - volevano servire l'Italia. Il problema non è decidere qual era la parte «giusta» e quale quella «sbagliata»: bensì guardare non a quel che li divideva, e che allora ovviamente prevalse, ma a quel che li univa: e che deve prevalere oggi, nella nostra memoria e nella nostra gratitudine. Quando si arriverà a ciò, il Venticinque Aprile sarà anche mio. Franco Cardini