Fausto accusa la sinistra

Tutti in gita, ieri, sul monte Faloria. Ma, comunque, volti noti della politica, dello sport, del giornalismo, manager e imprenditori che si incrociano nella splendida cornice montana di Cortina D'Ampezzo. La serie di appuntamenti organizzati nella cittadina veneta ieri ha visto protagonista proprio il doppiamente «ex» presidente della Camera e leader di Rifondazione (ma non ex subcomandante Fausto) che ha analizzato, alla luce della batosta elettorale di aprile, ma non solo, la crisi della sinistra. Come al solito, Bertinotti è partito da lontano per la sua analisi profonda, alta e insieme scarsamente pragmatica. «È finito il '900 - ha spiegato - e l'idea del progresso secondo cui questo è innovazione e modernità, associata all'essere migliori. Dopo Auschwitz - ha continuato Bertinotti - si scopre invece che nella modernità c'è una tragedia». Il Novecento, poi, viene «spezzato da una nuova rivoluzione su scala mondiale che io definisco una rivoluzione capitalistico-restauratrice». L'ex seconda carica dello Stato si riferisce alla globalizzazione. «Cambiano i rapporti sociali ed economici in tutto il mondo, che diventano post-sociali, e c'è una regressione di civiltà. La competitività diventa il nuovo sovrano». Fin qui la premessa della tesi bertinottiana. A questo punto si arriva al ruolo (o al «non ruolo») della sinistra. «La crisi verticale della sinistra - sottolinea Bertinotti - è la mancata risposta a questo cambiamento. La sinistra non ha un punto di vista autonomo su questo mondo, scambia l'innovazione per progresso e la modernità per civiltà». Secondo l'ex leader del Prc, accusato di essere il principale artefice della sconfitta di aprile, «per questo la politica si è ridotta a pura amministrazione e la sinistra è stata messa fuori gioco perché sembra inutile. Questo, tuttavia, non è solo un problema della sinistra ma di tutti» e, in tale quadro, «la catastrofe non è fuori dal novero delle cose possibili». Bertinotti, inoltre, ha parlato di morti sul lavoro e di lotta alla disuguaglianza. E, infine, ha confessato: «Non mi piacerebbe vivere in Cina» anche se «non dico che era meglio la Cina di Mao». Parole che devono aver fatto rivoltare il «compianto» presidente della Rpc (sigla che significa Repubblica popolare cinese ma che è anche l'anagramma del Prc) nella tomba.