Comici, pacifisti e senatori «ribelli» contro il governo

Sarebbe solo folklore se oltre a Dario Fo, Beppe Grillo e Gino Strada (quest'ultimi due in collegamento telefonico) non ci fossero stati tra i pacifisti radicali autoconvocati, riuniti ieri a Roma, pure gli 8 senatori della maggioranza - oltre a numerosi deputati ultrascettici - dichiaratamente intenzionati a votare no al rifinanziamento della missione militare italiana in Afghanistan. Dalla prossima settimana comincia l'iter parlamentare del decreto. Sarà un calvario per il governo, nonostante per l'occasione sia stata elaborata una mozione che doveva essere il terreno di incontro e compromesso delle varie anime della maggioranza. Per ora però la convergenza di tutti sembra lontana. E Prodi a rischio. Se pure la senatrice verde Loredana De Pretis, in un certo senso la più moderata degli estremisti, dice che «passi avanti sono stati fatti» e che «la mozione contiene punti più avanzati», lontano sembra il punto d'accordo. Claudio Grassi, un altro dei ribelli, lui al Senato per Rifondazione, pone il confine invalicabile: «L'inserimento nel decreto legge di un riferimento esplicito di un'exit strategy dall'Afghanistan». Ma poiché è difficile immaginare che Radicali e Udeur - ma anche tanti moderati della Margherita - accettino tale condizione, la maggioranza ha decisamente un problema. Se al Senato fossero indispensabili i voti dell'opposizione si aprirebbe una crisi che chissà dove potrebbe portare. «Alle maggioranze variabili, un ibrido in cui a seconda delle situazioni Casini o Bertinotti fanno da sponda a Prodi - risponde sicuro l'ex deputato di Rifondazione Marco Ferrando -. Un orrore che comunque è sempre meglio dell'ipocrisia di oggi perché non c'è niente di peggio di un governo di sinistra che fa una politica di destra». Insomma se Prodi cade, poco male. Del resto Ferrando non ha nulla da perdere, neppure un posto in Parlamento. Ma per gli altri parlamentari pacifisti un po' di angoscia per il futuro c'è. Infatti neppure Salvatore Cannavò, della minoranza trotskista di Rifondazione (sì, avete letto bene, ci sono ancora i trotskisti) pone l'alternativa secca tra «via da Kabul o tutti a casa». Dice Cannavò: «Non ci sono le condizioni per far cadere il governo», mentre ribadisce il no alla mozione. Certo, lui vota alla Camera dove il voto dei pacifisti radicali è meno vitale per il governo, però se un numero significativo di parlamentari tra Verdi, Rifondazione e Pcdi votassero contro il decreto, il caso politico sarebbe comunque aperto. Al Senato la posta è ancora più alta, è in gioco la sopravvivenza del governo. Se «cadere per un no alla guerra» come dice il fondatore di Emergency, Gino Strada, «è cosa giusta e bella», però riandare alle elezioni o fare un governo con Casini non sembra una prospettiva allettante neppure per i leader del pacifismo duro e puro. E allora Cesare Salvi, senatore della sinistra Ds, indica la strada: «Basterebbe mettere la fiducia. Il governo va avanti con la fiducia anche sulla riforma dell'esame di maturità, non capisco perché su un tema vero da fiducia come questo il governo vogliamo mostrare la faccia dura». Con la fiducia in effetti Prodi potrebbe farcela anche al Senato con la sua maggioranza perché per disciplina o per realismo nessuno, pare, si sottrarrebbe. Neppure Fosco Giannini, altro senatore di Rifondazione «ribelle», che non vuol neppure sentir parlare di caduta del governo Prodi. Insomma le parole sono di fuoco, grandi dichiarazioni però poi è impossibile prevedere quanto sarà compatto il fronte del no alla missione in Afghanistan. E infatti se qualcuno chiude, tipo il senatore verde Bulgarelli e difende il diritto alla ribellione, qualcuno apre, come l'altro verde pacifista Silvestri che dice «intravedo nella mozione un cambio di indirizzo che può portare alla mediazione». Pochi gli attacchi. Solo il leader dei centri sociali veneti Luca Casarini ha rimproverato esplicitamente a Bertinotti di essere troppo attaccato al potere. Ma per un esplic