ANDREOTTI

Si va dagli studenti insicuri alle mamme pensose del futuro dei figli, dalle aspiranti veline ai neo-laureati terrorizzati alla prospettiva di finire in un call-center, dal commerciante in attesa di licenza all'affittuario a rischio sfratto. Secondo la memoria e l'esperienza di Giulio Andreotti, interpellata dall'Adnkronos, è indubbio che le raccomandazioni «tiravano» più nella prima Repubblica che nella seconda, dove peraltro, non lo nega, restano di attualità. «Nell'immediato dopoguerra -dice il senatore a vita - la vera e propria valanga di richieste di raccomandazioni riguardava la liquidazione dei danni di guerra e la pensione. I tempi, allora, erano particolarmente lenti e molti si rivolgevano ai parlamentari. Credo che fosse tale la massa di domande che alla fine molte si elidessero a vicenda». «Più tardi - ricorda il sette volte presidente del Consiglio - un altro filone divenne quello delle liste dell'emigrazione: essere nella lista degli emigrati per il Canada o l'Australia poteva significare il lavoro e una prospettiva di vita dignitosa. Ricordo, inoltre, che una successiva ondata era quella legata all'emergenza abitativa. In parte, ancora oggi, a Roma, il problema esiste, ma fino a non molto tempo fa esisteva il commissario ad hoc. Ed inevitabilmente i politici diventavano i destinatari di appelli e istanze mirate». Andreotti identifica il «target» numero uno, per gli aspiranti raccomandati, nel posto di lavoro: «La crisi economica e la difficoltà a trovare un'occupazione emergono in tutta evidenza», dice l'ex presidente del Consiglio. Eppure, ammette, «il fenomeno è meno pronunciato che nella prima Repubblica» forse perché «c'è una maggiore consapevolezza dell'inutilità della richiesta». E avverte: «Nulla di più sbagliato», dice senza ombra di ironia colui che per decenni ha incarnato per gli italiani l'immagine del potente «che la sensazione che a esaudire la richiesta possa bastare la telefonata che arriva dal politico... No, spesso è molto più utile l'intervento dell'usciere o di un archivista di un ministero, che non del ministro stesso».