giustizia

L'incertezza del diritto e la sua narrazione mediatica. Il caso della sentenza sulla Scala

Francesco Rotondi*

Caro direttore,
il relativismo cognitivo ed etico imperante permea anche la sfera del diritto, spingendo le dottrine giuridiche verso le sponde del realismo giuridico della Common Law: il verificarsi di tale fenomeno in un sistema giuridico in cui non vige la regola del “precedente”, è la principale causa della odierna crisi della certezza del diritto. Di conseguenza, sempre più spesso, assistiamo al fenomeno di deformazioni mediatiche che riguardano pronunce giudiziarie, in cui il soggettivismo si intreccia con il populismo mediatico, dando luogo a un gioco di specchi.

Di solito tali episodi di “resistenza giudiziaria” alla volontà di Governo e Parlamento, marciavano sui binari di alleanze mediatiche esplicite e lineari. Oggi si registra invece  un avanzare di pulsioni populiste, presente nei media digitali e in molti media tradizionali, e accade così che le notizie e i messaggi politici immessi nel dibattito pubblico non sempre coincidano, indipendentemente dagli orientamenti politici.

Un caso paradigmatico attuale, è quello della giovane maschera della Scala che è stata licenziata in tronco per esservi avvicinata al palco della presidente del Consiglio sciogliendo una bandiera palestinese e urlando “Palestina libera”: in occasione di un evento concertistico internazionale di rilievo istituzionale, poco prima dell’inizio della rappresentazione, aveva lasciato la sua postazione di lavoro recandosi verso i posti in cui erano accomodati gli esponenti del Ministero dell’Economia e delle Finanze, mentre entrava in sala la presidente del consiglio Giorgia Meloni.

Nella narrazione mediatica, prima che si conoscesse la motivazione della sentenza, il caso era stato subito etichettato come discriminazione per ragioni politiche, nonostante che tale inquadramento giuridico non combaciasse con la condanna al mero risarcimento del danno. Non solo: al licenziamento asseritamente nullo si accompagnava spesso, nei media più superficiali o più schierati, l’insussistenza di qualunque rilievo disciplinare.

Eppure, era pacifico che la lavoratrice avesse commesso innumerevoli violazioni, sia pur non affette da giusta causa di licenziamento, quali l’allontanamento non autorizzato dal posto di lavoro, il venir meno al dovere di assoluta serietà, atteggiamenti scorretti aggravati della presenza altissime cariche dello stato, dall’importanza dell’evento, dalla tensione e preoccupazione generata in sala per il timore di azione violenta.

Per il giudice, ciò non è stato sufficiente a disegnare un licenziamento per giusta causa.

Ciò rende evidente che soggettivismo giudiziario e narrazione mediatica rischiano di creare un complessivo atteggiamento ostile all’impresa, che il nostro Paese avrebbe molto bisogno di superare.

Da ultimo, non certo per importanza, corre l’obbligo di segnalare un’altra allarmante deriva: date le “false notizie” poco importa della oggettiva “verità”.

* consigliere esperto del Cnel