il commento

La scommessa vera è sul lavoro non sul reddito di cittadinanza

Mario Benedetto

A pochi giorni dalle urne è doveroso richiamare l'attenzione su un tema, per non dire «sul tema», di vitale importanza, per tutti: il lavoro. Che la questione sia centrale è ormai chiaro per tutti. Meno scontate sono, invece, le ricette proposte per renderlo un diritto effettivamente universale. Alla soglia di un appuntamento delicato come il voto di domenica, va riportata al centro del dibattito la necessità di soluzioni, vere, rispetto alla «questione lavoro» in vista dell'insediamento del prossimo governo. Partendo prima di tutto da alcuni assunti, semplici. La misura del reddito di cittadinanza, pensata non solo come sostegno alle categorie deboli, ma anche come strumento per favorire l'occupazione, è al suo terzo anno di vita. Pochi giorni fa un dato allarmante ha raggiunto tutti noi: 2,6 milioni di italiani, poveri, a rischio fame (Coldiretti). Tutto ciò, nonostante qualcuno abbia dichiarato di aver sconfitto la povertà da qualche anno. C'è da chiedersi, tra l'altro, con quale senso civico si presentino agli occhi degli elettori, che comunque sapranno comportarsi di conseguenza e, loro sì, responsabilmente. Ma guardiamo oltre, andiamo alle soluzioni. Bene, è sufficiente solo questo dato per mettere in discussione quello che, sin ora, è stato fatto a favore delle categorie deboli, per capire che bisogna fare qualcosa di estremamente diverso, se non diametralmente opposto. Qui sta il grande fraintendimento, chiarito bene con questo ragionamento: mettere in discussione uno strumento, il reddito di cittadinanza, non significa mettere in discussione i bisogni dei suoi destinatari. Anzi, è esattamente l'opposto: si devono mettere le esigenze di deboli e fragili al centro di una soluzione politica, realmente efficace, al punto da mettere in discussione ciò che non ha funzionato in questo senso. Chiaro no?

 

 

Allora ecco perché l'assistenzialismo è una soluzione da relegare nel passato: perché non serve né a fare sviluppo, per il quale sono necessarie risorse a favore imprese e professionisti, che possano metterle in campo azioni economiche «espansive», investendo su sé stessi e sulle proprie attività, per intenderci. E perché non serve neppure a quelle fasce deboli, che potrebbero beneficiare persino si risorse in più, che oggi invece sono disperse tra coloro che le percepiscono indebitamente o che diventano di fatto forza lavoro passiva e «inattiva», nella migliore delle ipotesi integrando spesso il lavoro ufficiale con altri redditi percepiti, in barba alle regole. Alimentando così l'evasione fiscale. Il che si traduce in cifre più alte da pagare per chi, invece, le regole le rispetta. Tutto sembra filare, purtroppo. Ci siamo chiesti poi perché il 38% dei percettori del reddito ha meno di 29 anni? Sicuramente tra essi ci saranno casi di persone, pur di giovane età, impossibilitate a lavorare o in condizioni di particolare difficoltà che rendono necessaria la misura. Ma quante di queste braccia si potrebbero gratificare con il lavoro? È da qui che bisogna ripartire, dalla funzione sociale del lavoro, dall'utilità per la Persona e per la società tutta.

 

 

È un bisogno diffuso, come dimostra il consenso accordato a chi, come Giorgia Meloni, offre con forza un'alternativa, che mantenga il massimo sostegno per disabili e categorie deboli, ma gratifichi le persone con il lavoro e le opportunità che esso può offrire. Investendo il modo diverso, e migliore le risorse, anche europee, oggi a disposizione. Al contrario, s' innesca una spirale che non produce sviluppo, ma stagnazione: l'opposto di ciò che ognuno di noi necessita. Torno volutamente sul «noi» e sull'importanza di un nuovo modo di agire e pensare a livello politico: ciò che di buono si fa per la persona torna, grazie al mercato, alla persona stessa e al sistema sociale. Il contrario di quello che avviene oggi, con misure che forniscono consenso a tribù e fazioni, invece di favorire lo sviluppo di un sistema. E sono i numeri a dirlo. Garantita una misura di sostegno ai deboli, ormai pare chiaro, bisogna mettere necessariamente mano al reddito di cittadinanza. Serve, piuttosto, un «lavoro di cittadinanza». È da qui che si può parlare di una dignità garantita ai cittadini nei fatti e non oggetto di slogan dal sapore mediatico. Nulla di più civile, moderno, «europeo». Le luci si spegneranno sulla campagna elettorale e il nostro futuro sarà la scommessa, vera, sul lavoro. Con un regola semplice, al punto da apparire oggi rivoluzionaria: credere nello sviluppo, non investire sull'inerzia.