il commento

Il presidenzialismo proposto da Giorgia Meloni non è una deriva autoritaria: lo diceva anche la sinistra

Riccardo Mazzoni

Uno dei fondamenti della democrazia liberale è la pari dignità delle opinioni, dei programmi e della libertà di scelta, e invece è già partita la mobilitazione per difendere «la Costituzione nata dalla Resistenza» dagli «assalti della destra» che, se vincesse il 25 settembre con una larga maggioranza, potrebbe approvare da sola la grande riforma istituzionale senza passare neppure dal referendum confermativo. Per questo si stanno moltiplicando gli appelli per una «coalizione d'emergenza contro la deriva autoritaria». Nel mirino della sinistra militante c'è soprattutto il presidenzialismo, che figura ai primi tre punti del programma di governo del centrodestra e prevede il rafforzamento del potere esecutivo, già bollato come una condanna alla ghigliottina del Parlamento sancita «dall'estrema destra». Per questo Letta si è affannato a radunare un'improbabile ammucchiata politica totalmente incapace di governare ma presentata come una sorta di nuovo Cln per arginare il risorgente fascismo del Duemila mascherato sotto le insegne sovraniste. Ora, a parte che secondo tutti i sondaggi il presidenzialismo è una riforma gradita alla grande maggioranza degli italiani, paventare un cambiamento che faccia scivolare l'Italia su un piano inclinato illiberale stile Orban è un'eresia, o per meglio dire una castroneria, perché il nostro sistema ha robusti contrappesi per scongiurare tentazioni che nessuno peraltro coltiva.

 

 

Il sistema molto simile a quello semipresidenziale francese proposto da Fratelli d'Italia, infatti, non costituisce un vulnus democratico, e la sinistra italiana dovrebbe esserne cosciente, visto che la bicamerale presieduta da D'Alema ondeggiò tra semipresidenzialismo e premierato forte, e lo stesso Letta, quando era premier, lanciò un sasso in favore dell'elezione diretta del presidente della Repubblica. Ma il problema è che da quella parte resta forte il pregiudizio, erede del paradigma antifascista - secondo cui il centrodestra non avrebbe ancora il diritto ad aspirare alla guida del Paese con il consenso degli elettori, e infatti ogni volta che Berlusconi ha vinto è scattato il riflesso pavloviano della democrazia in pericolo, per cui toccare la Costituzione senza il placet della sinistra è sempre e comunque un atto sulla soglia dell'eversione. Eppure illustri padri costituenti come Calamandrei, Mortati e Perassi, antifascisti senza macchia, si batterono fino all'ultimo per non arrivare a un sistema parlamentare con governi instabili: sapevano bene che il fascismo non era stato il prodotto di esecutivi forti, ma, anzi, della debolezza dei governi precari del periodo liberale. Non si può, dunque, restare nella palude delle riforme mancate, come non ha senso perseverare nelle battaglie ideologiche del Novecento.

 

 

Quindi, dopo un'altra legislatura buttata via per la sbornia populista, se il prossimo Parlamento avrà un'ampia maggioranza di centrodestra, il cantiere delle riforme istituzionali non potrà restare ancora chiuso per veti, e proprio intorno al presidenzialismo più in generale, all'obiettivo di snellire il processo decisionale rafforzando i poteri dell'esecutivo e delineando meglio la cornice costituzionale dell'autonomia rafforzata - dovrà ruotare il confronto politico, coinvolgendo auspicabilmente l'opposizione, ammesso che si dichiari disponibile. Del resto, quando fu introdotta l'elezione diretta di sindaci e presidenti delle regioni anche la sinistra salutò quel modello come un'innovazione utile alla democrazia, perché responsabilizza di fronte al corpo elettorale i capi delle amministrazioni, e non escluse di applicarlo anche a livello nazionale (Renzi ad esempio lo sbandiera ancora). Ma se lo propone il centrodestra, quel modello diventa ipso facto autoritario. Anche se l'iter per arrivarci è previsto proprio dalla Costituzione, i cui estensori non a caso lasciarono alcune pagine incompiute per consentire di adeguarla ai tempi.