commento

Legge elettorale, il Porcellinum è un favore al Pd

Riccardo Mazzoni

Il cambio in corsa a fine legislatura delle leggi elettorali è una prerogativa, anzi un’anomalia tutta italiana: se andasse in porto la riforma in gestazione, sarebbe infatti la dodicesima volta dall’unità d’Italia, un record assoluto. C’è un’autorevole corrente di pensiero secondo cui questo inveterato vizio di ritagliarsi una riforma elettorale a proprio vantaggio, ancorché politicamente legittimo, rischia di deviare il corso corretto della democrazia a svantaggio degli avversari, anche se per una strana nemesi gli autori di ogni machiavello, furbata o porcata che fosse, sono poi sempre usciti sconfitti alla prova delle urne. Ma questa volta, si dice, l’urgenza di rivedere la legge elettorale è dettata soprattutto dalla riduzione del numero dei parlamentari, che produrrà un significativo effetto maggioritario privando peraltro di rappresentanza parlamentare alcuni territori a causa della maggiore ampiezza dei nuovi collegi. Si tratta di problemi oggettivi, la cui origine risale però a un taglio dei parlamentari fatto con l’accetta populista senza prevedere gli adeguati contrappesi.

Non di questo, però, si sta occupando la politica, visto che correttivi importanti come la riforma dei regolamenti parlamentari e il superamento della base regionale per l’elezione del Senato sono ancora indefiniti: il dibattito verte tutto sul ritorno al proporzionale, e trova la sua ratio principale negli interessi di Letta, che da fautore incrollabile del sistema maggioritario, una volta verificata l’impraticabilità del campo largo ha cambiato decisamente rotta nel tentativo di limitare i danni elettorali con un sistema che scongiuri il più possibile il successo del centrodestra. Impresa difficile, visto che le ultime simulazioni lo danno vincente sia col Rosatellum che con il proporzionale, ma da ora al voto può ancora succedere di tutto se la coalizione favorita non metterà giudizio.

E qui veniamo al nocciolo della questione: il lavorìo sotterraneo in corso mira soprattutto a eliminare i collegi uninominali per non suscitare crisi di rigetto degli elettori Pd se sulla scheda si trovano il nome di un candidato grillino e viceversa, a dimostrazione dell’artificiosità dell’alleanza giallorossa. Un problema che il centrodestra ha in misura minore, perché può contare su un elettorato che secondo i sondaggi è rimasto sostanzialmente compatto nonostante le divaricazioni politiche dei partiti di appartenenza, e dunque si tratterebbe «solo» di individuare un metodo condiviso per spartirsi in modo equo i collegi, equazione però impossibile senza un recupero di visione unitaria e senza un soprassalto di coesione fra i leader.

Ma l’eliminazione dei collegi, il recupero della loro torsione maggioritaria col premio alla coalizione e il ritorno alle liste di partito su cui si sta lavorando è un gioco che non vale la candela. Si avrebbe una versione modificata del Porcellum con la previsione di una soglia congrua per far scattare un premio di maggioranza che non porti a un’eccessiva disproporzionalità tra voti ricevuti e rappresentanza parlamentare. Il Rosatellum non è certo una legge perfetta, ma nacque stretto dai rigidi paletti posti da ben due sentenze della Consulta e dalla bocciatura referendaria della riforma Boschi, e non c’è da stupirsi se non ha retto alla prova del voto, a causa anche della crescita anomala dei consensi grillini. Ma rispetto al Porcellum, dal punto di vista della scelta dei candidati la situazione è decisamente migliorata grazie ai maggiori requisiti di conoscibilità dei singoli candidati, ed è stata scongiurata anche l’anomala competizione fratricida con le preferenze nell’ambito della stessa lista. Per cui non vale proprio la pena impantanarsi nella trattativa per un Porcellinum che servirebbe quasi esclusivamente a togliere le castagne dal fuoco al Pd.