ALESSANDRO CAPUTO CHEF DEL NUOVO "THE FLAIR" A ROMA

"Con il menu al buio seduco il palato"

Paolo Zappitelli

«A quattro anni salivo sul bancone della cucina di mia zia per mescolare le salse facendo arrabbiare tutti. La voglia di fare lo chef credo sia partita da lì...». Trent’anni, palermitano, Alessandro Caputo da poco meno di un mese ha aperto il suo ristorante «The Flair», che ha preso il posto del «Giuda Ballerino» sul roof garden del Bernini Bristol a piazza Barberini a Roma. Tutto nuovo il menu, tutto nuovo l’arredamento, ampliando lo spazio dei tavoli nella parte esterna della terrazza con vista da capogiro sul centro della città. «L’ho immaginato come un locale giovane, fresco, fashion - racconta - E poi vuoi o non vuoi dobbiamo nutrirci e allora facciamolo nel modo migliore». La «gioventù» si vede soprattutto nella voglia di sperimentare, di usare tecniche nuove. C’è una carne cotta a bassa temperatura per 52 ore, un carpaccio di baccalà «sanificato» con un procedimento che lo pressa a 6000 atmosfere, c’è anche un po’ di Ferrian Adrià con l’uso della maltodestrina. E poi nel menu c’è una degustazione che si chiama buio. Una provocazione? «No, si tratta di 11 portate che il cliente non conosce. E neppure noi...» In che senso? «La mattina compriamo quello che ci piace di più e poi lo cuciniamo. È uno stimolo per noi per essere sempre attivi, per scoprire cose nuove. E così il menu è sempre diverso, cambia ogni tre, quattro giorni». Ci sarà però un piatto che le piace di più, quello del «cuore». «Sì, uno solo, è la parmigiana di melanzane che abbiamo sempre in carta». La cucina della tradizione insomma. «Sì, è quella di mia madre. Ma siccome non riuscirò mai a prepararla come lei ho deciso di farla completamente diversa. Metto la mozzarella nel microonde in modo che si smuova l’acqua che è all’interno e in questo modo diventa malleabile e ne faccio delle striscioline. Il pomodoro viene frullato e concentrato cuocendolo a bassa temperatura per 3, 4 ore aggiungendo zucchero e sale. Anche le melanzane le preparo al microonde con sale e olio e poi le frullo. Infine l’olio lo faccio inglobare con la maltodestrina in modo che diventi una polvere che spargo sopra al piatto. Alla vista non è una parmigiana classica ma in bocca lo diventa. E infatti ai clienti consiglio di mangiarla... al buio». L’importante, come sempre, sono le materie prime. Lei dove le acquista? «Moltissimo da produttori locali, ma anche fuori. Ho scoperto ad esempio una carne particolare di una razza che si chiama marango, un incrocio tra una maremmana e un angus. Abbiamo provato diverse cotture e alla fine quella di 52 ore è stata la migliore. Viene morbidissima, la fibra praticamente scompare». Lunghe cotture, tanta sperimentazione, tecniche nuove. È la concorrenza romana che la spinge a lavorare così? «Beh questa è una città piena di ristoranti e con una qualità molto alta. Se vuoi avere successo, differenziarti, sei costretto ad andare sempre oltre, a trovare qualcosa di nuovo».