YES WE TRUMP

Ricominciamo a parlare di America

Simone Santucci*

Con l'elezione di Donald Trump a presidente l’America ed il mondo hanno assistito ad uno degli eventi più rilevanti della nostra storia recente, al pari della caduta del muro di Berlino e dell’attentato dell’11 settembre alle Torri Gemelle. La vittoria di Donald Trump, infatti, non determina semplicemente un normale avvicendamento tra amministrazioni di diverso colore, come tanti altri nella tradizione americana, ma sancisce, inaspettatamente, il crollo di una generazione di potere e di tutte le certezze che da un cinquantennio governano la politica e l’establishment americano. Che sia una sconfitta di una candidata debole, invisa alle grandi masse già sedotte ed abbandonate da Obama o che sia, viceversa, la vittoria del pragmatico tycoon di New York poco importa. Oggi inizia una nuova era. Donald Trump non ha semplicemente vinto una elezione presidenziale, peraltro con un margine al di là di ogni aspettativa più ottimistica. Trump, con il suo successo solo ed esclusivamente personale, ha affossato e sconfitto i due schieramenti politici più potenti al mondo, il partito democratico – in primis – ma ancor di più il "suo" riottoso partito repubblicano. Ha anche letteralmente mandato in pensione le due famiglie più potenti (assieme alla sua, s’intende) che da circa trent'anni si contendevano la leadership della potenza più grande dell’Occidente: i Bush e i Clinton. Scusate se è poco. Non c’è bisogno di studiare la complessa geografia dei flussi elettorali per comprendere come il sogno dell’esperienza di Obama si sia esaurito anzitempo, esaurito ben prima dello scadere del suo anonimo mandato. Ciò che emerge è che stavolta, nessun fattore, né razziale, né religioso, né sociale abbia contribuito in modo netto, come in passato, al sostanziale cambiamento di opinione dell’elettorato statunitense. Quello che era stato ampiamente annunciato, un voto di massa degli afroamericani, dei latinos e degli asiatici nei confronti della Clinton, non si è avverato. Sì, come era facilmente prevedibile, Trump ha pescato nell’elettorato "bianco", come da sempre fa il partito repubblicano. Nessun fattore confessionale ha inciso: basti ricordare la sfida del 2004 tra Bush e Kerry per comprendere che questa battaglia nulla ha a che fare con le tradizionali campagne elettorali americane. Apostolici, cattolici e mormoni non hanno fatto rumore e si sono schierati in modo meno perentorio rispetto alle annate scorse. Se Trump è riuscito abilmente a convincere il suo elettorato di riferimento, nonostante le fatwe ingenerose dell’alta dirigenza del Gop, la Clinton, viceversa, non solo si è dimostrata incapace di mantenere i consensi che per la seconda volta avevano permesso ad Obama di governare ma, dato più emblematico, non è riuscita ad intercettare nulla di quel focolaio giovanile che con grande entusiasmo (e anche con numeri non esattamente irrilevanti) aveva permesso a Bernie Sanders di prolungare oltremodo la battaglia per la nomination democratica. Ciò che stupisce, inoltre, è che tutti i punti deboli di Trump, i nervi scoperti di una candidatura a tratti obiettivamente discutibile, hanno finito per favorirlo. L’America si è totalmente disinteressata della descrizione mostruosa che i media e gli osservatori internazionali hanno fatto di questo signore curioso e ha letteralmente rifiutato una postuma riedizione della brutta copia dei due ultimi presidenti democratici. A Trump va il merito di avere nuovamente portato gli Stati Uniti al centro del dibattito politico e mediatico internazionale per questioni - piaccia o non piaccia – meramente politiche e di campo. Il tempo delle trasmissioni e delle inchieste sugli orti bio e sulle tappezzerie della stanza ovale è, per la gioia di noi commentatori, consegnato ai libri della (inutile) storia. Ricominciamo a parlare di America. Good morning America. *Capo della Segreteria della Fondazione Luigi Einaudi