"I marò sono prigionieri com’ero io, ma in Iraq c’era la guerra"
Da due anni segue con ansia, giorno per giorno, l’odissea indiana dei due Marò. Lui, che è stato un mese e mezzo prigioniero della Guardia Repubblicana di Saddam Hussein durante la prima guerra del Golfo, non può non immedesimarsi nella loro drammatica situazione di ostaggi italiani in terra straniera. Ostaggi che rischiano la pena di morte per aver fatto semplicemente il proprio dovere. «Quello che è successo non doveva succedere. La vicenda è stata gestita malissimo, aggiungendo errore a errore», sottolinea il generale di brigata Gianmarco Bellini, che nella notte fra il 17 e il 18 gennaio 1991 aveva i gradi di maggiore ed era in missione nel cielo sopra Kuwait City. Il suo cacciabombadiere Tornado fu abbattuto dalla contraerea nemica e lui fu catturato con il suo navigatore, il capitano Maurizio Cocciolone. Dal 2011 Bellini vive negli Stati Uniti, a Virginia Beach, dove la moglie gestisce il ristorante italiano «Il Rigoletto». Ma non ha dimenticato quei maledetti 47 giorni di 23 anni fa. Che cosa ricorda della sua detenzione in Kuwait? «Di quel periodo di prigionia porto con me pensieri e immagini che non mi lasciano e, probabilmente, non mi lasceranno più - spiega - Oltre alla privazione della libertà, quello che mi bruciava di più era la mancanza di dignità. Eravamo trattati molto duramente. Anche per questo mi sento molto vicino a Massimiliano Girone e Salvatore Latorre e alle loro famiglie. Soprattutto alle famiglie: tu che sei lì a combattere per la tua libertà soffri, certo, ma sono i tuoi familiari a stare peggio, perché non sanno che cosa succederà e se e quando ti potranno finalmente riabbracciare...». Secondo lei, com’è stata gestita la vicenda? «Malissimo. Non doveva andare così. Se i ragazzi erano impegnati in un’operazione in acque internazionali e su una nave che batteva bandiera italiana, tutta la gestione doveva essere italiana. Qualsiasi altra via era impensabile». Come sarebbe dovuta andare, quindi? «I due fucilieri della Marina dovevano essere giudicati in Italia da un tribunale italiano». E il governo indiano come avrebbe dovuto comportarsi? «Come si fa di solito nelle questioni internazionali. Doveva chiedere l’estradizione dei due militari e poi seguire la prassi di rito. Esattamente come avviene se un nostro connazionale commette un reato in un Paese straniero. Anche in quel caso, l’unico strumento è l’estradizione». Chi ha sbagliato per primo? «Il comandante della nave, che è rientrato in porto e ha messo a disposizione delle autorità indiane i suoi passeggeri. La nave è territorio nazionale e il reato commesso a bordo è di competenza del Paese a cui la nave appartiene». Questo anche se il capitano non è un militare? «Certo. Anche se non è un militare, il comandante è il comandante. Non doveva comunque mettere a repentaglio la vita dei passeggeri. Poi a questo errore, se ne sono aggiunti altri...». Come quello di farli rientrare in India a febbraio, dopo il permesso per venire in Italia a votare? «Io non li avrei fatti tornare indietro. Se ce li tenevamo, ci sarebbe stata un pò di maretta e basta. Tutto sarebbe finito lì. Inoltre avremmo dimostrato di essere in grado di giudicarli ed eventualmente condannarli, se riconosciuti colpevoli. D’altra parte il diritto l’abbiamo inventato noi, non loro». Che cosa pensa accadrà adesso? «Siamo arrivati a uno stallo preoccupante. È quasi due anni che sono laggiù e non vedono la fine del tunnel. Neanche gli indiani sanno più che fare. E il problema non è solo quello di una possibile condanna alla pena capitale. Anche se verranno condannati a un periodo di detenzione, sarebbe ingiusto. Hanno fatto il loro dovere e, se hanno sbagliato, lo hanno fatto nell’adempimento del loro dovere». Il suo augurio? «Spero che la comunità internazionale ci dia una mano. E spero anche che l’India li processi al più presto, perché l’incertezza è la cosa peggiore. Una condanna avrebbe, almeno, l’effetto di sensibilizzare l’opinione pubblica e aiutarci a riportare a casa Massimiliano e Salvatore».