Deutsche Bank nel casinò

Il grand opening si è celebrato pochi giorni fa: mercoledì 15 a Las Vegas. In quelle stesse ore, e tenendo conto del fuso orario, i leader europei, i ministri dell’Ecofin e dell’Eurogruppo, i tosti e serissimi componenti del board della Banca Centrale Europea confluivano su Bruxelles per discutere del destino dell'euro e dei debiti sovrani. Un trionfo di grisaglie e severi occhialetti, considerato che le uniche note di colore erano il tailleur verde mela della cancelliera Angela Merkel ed il cappottino grigio ferro con colletto di pelliccia di Christine Lagarde, ministro del Tesoro francese. Grave, del resto, anche il momento. Incombono i downgrading, come quello di ben cinque gradini deciso da Moody's per l'Irlanda. O la ricapitalizzazione della Banca centrale. O la scoperta che se i nuovi, restrittivi parametri di Basilea 3 entrassero in vigore oggi, e non tra dieci anni, costerebbero alle sole banche italiane 40 miliardi di euro. Beh, non preoccupatevi. Almeno non più di tanto. Il 15 infatti la Deutsche Bank, primo istituto di credito della Germania e terzo del mondo, è appunto sbarcata a Las Vegas. Inaugurando un proprio casinò: il Cosmopolitan, due torri di 53 piani sulla mitica Strip, tra il Bellagio ed il Planet Hollywood Resort. Che dire? La prima reazione sarebbe: era l'ora. Forse con le slot machine ed i tavoli di blackjack le banche faranno meno danni che con i mutui subprime e le obbligazioni strutturate. Potrebbero anche scoprire la loro vera vocazione: già nel 2009 il Credit Suisse aveva rilevato il Resort International ad Atlantic City.  E magari al prossimo convegno dell'Aspen potrebbe debuttare la lap dance: in una sessione a porte chiuse, s'intende. Ovviamente la Deutsche Bank ha una spiegazione di ferro per questa, chiamiamola così, diversificazione: il Cosmopolitan, uno dei più costosi progetti immobiliari di Sin City era stato iniziato nel 2005 dal costruttore americano Ian Bruce Eichner con 60 milioni di dollari ottenuto proprio dai tedeschi. Con la crisi, i finanziamenti erogati dalla Deutsche Bank erano saliti fino a un miliardo, finché Eichner ha gettato la spugna. A quel punto l'austero istituto di Francoforte ha deciso di proseguire da solo, investendo altri tre miliardi e completando il casinò ed il megahotel da 2.600 tra camere, appartementi privati e suite, con 5 mila dipendenti, tre piscine, un teatro da 1.800 posti, e la solita mecca dello shopping che non manca mai in nessun angolo degli States, e tanto meno in quella parte di deserto del Nevada. Ovviamente qualcuno si potrebbe anche chiedere perché mai la Deutsche Bank abbia deciso a suo tempo di finanziare proprio un nuovo casinò a Las Vegas. Ma in fondo c'è differenza tra l'aver puntato sul verde del panno dei tavoli di roulette o su quello del colore nazionale dell'Irlanda? Non molta, diciamo la verità. E se a Dublino si beve ottima birra, a Las Vegas puoi sorseggiare il Maker's Mark, il miglior bourbon del mondo. Magari in buona compagnia. Il problema, certo, è un altro: diciamo di immagine. Già ora molti comuni mortali quando entrano in una banca non sanno se ne usciranno con gli stessi soldi; e non per averli depositati in conto. Se quella dei casinò si consolida come tendenza, la spennatura sarà almeno palese. Più che mai ci viene in mente Gordon Gekko di Wall Street. In particolare uno dei suoi insegnamenti: «I più di questi laureati di Harvard non valgono un ca**o. Serve gente povera, furba e affamata, senza sentimenti. A volte vinci, a volte perdi, ma continui a combattere. E se vuoi un amico, prendi un cane». Ma qualcosa ci dice che il nostro eroe disapproverebbe l'operazione: non lo vediamo bardato in smoking (pardon, il tuxedo) bianco, come Dean Martin al Flamingo, nella versione originale di Ocean Eleven. Nessuno scandalo, comunque: siamo tutti uomini di mondo. Però, d'ora in avanti, risparmiateci le pappardelle sui ratios patrimoniali. E sull'austerity alla tedesca.