La danza macabra della Grande Guerra

Al pari di tutti gli «interventisti della cultura», e cioè della generazione che aveva fatto le battaglie delle Riviste e delle Avanguardie, in attesa della prova del fuoco, Giuseppe Ungaretti va in guerra «con piena avvertenza e deliberato consenso». Soldato semplice sul Carso, però, «vede». E se non crede che, per dirla con Benedetto XV, la guerra sia «un’inutile strage», nella sua raccolta di poesie, «Allegria di naufragi» (che sarà ripubblicata con numerose varianti e, nel 1931, col titolo «L’allegria»), dà voce al turbamento, alla nostalgia, alla sofferenza di un popolo di combattenti in attesa. Di andare all’attacco. Magari di morire. Forse di tornare, ritrovando l’amore dopo l’orrore. Ricordate «Veglia»? «Un’intera nottata/ buttato vicino/ a un compagno/ massacrato/ con la sua bocca digrignata/ volta al plenilunio/ con la congestione/ delle sue mani/ penetrata/ nel mio silenzio/ ho scritto/ lettere piene d’amore». Quanti ne ha falciati la guerra, sfrenata nella sua danza macabra! Eppure l’umanità non muore. Si veglia il compagno «massacrato». Si scrivono lettere che sono un «pieno» di affetti. A raccontare il conflitto mondiale e, più che mai, a farcelo «vedere», a cento anni da quell’attentato di Sarajevo che lo scatenò (ma l’aria era già satura di tensioni), il Museo della Satira e della Caricatura di Forte dei Marmi ha inaugurato lo scorso 27 giugno una Mostra, «La danza macabra della Grande Guerra», (fino al 28 settembre, a cura di Cinzia Bibolotti, Franco Calotti e Linda Gorgoni Gufoni. Catalogo pp. 188, euro 18), all’insegna dell’«immagine». Molte immagini, tutte variamente suggestive, provenienti dalla Collezione di Lodovico Isolabella, che raccoglie, sul tema, disegni, dipinti, caricature, vignette, tavole originali, con l’aureola di firme illustri. Si tratta dei più grandi artisti del tempo, impegnati a rappresentare, al massimo della loro forza «testimoniale». Siamo dunque di fronte a «documenti», certo trasfigurati dall’estro creativo, ma tutti intesi ad attestare, a futura memoria, un evento in quella fondamentale assurdità che nulla toglie all’eroismo dei singoli, precipitati nell’inferno di ferro e di fuoco. Già, ma perché? Per chi? E in nome di che cosa? Domande eterne, che via via si ripropongono anche ai nostri giorni. Perché, a parole, tutti mettono al bando la guerra, nei fatti tutti la fanno, nei più diversi teatri, ovviamente in nome della pace, della libertà e della democrazia. E sono ben rappresentati anche gli europei, che tra loro non si scannano più, ma ben figurano negli scannatoi planetari. Ma torniamo alla Mostra. La «danza macabra» è la festa, brutta, sporca e cattiva, della morte che impazza. Guardiamo. Tutto emoziona, il passaggio dalla visione alla stretta al cuore alla riflessione è inevitabile. Si pensi ai capolavori pittorici di Mario Sironi che pubblicava le sue tavole a colori sul «Montello», il giornale destinato ai soldati al fronte. La sua «Sarabanda finale» - che è il logo della Rassegna-mostra, sullo sfondo di un cielo tetro, nascosto da due immense bandiere rosse (allusione ai sommovimenti politici in Germania), le teste mozzate dell’imperatore e dei suoi generali, issate su picche, tra il ludibrio feroce di una folla di soldati. Dalla morte violenta di migliaia di combattenti (sotto gli elmi non spuntano volti ma, piuttosto, teschi), parte l’urlo liberatorio, che suona come appello feroce alla morte violenta per tutti i responsabili del mattatoio. Anche Alberto Martini, autore di 54 litografie dal titolo «Danza macabra europea», si muove nel solco della denuncia/invettiva, non coinvolgendo solo i barbari teutonici, ma il bellicismo spietato di tutti gli schieramenti. E da ammirare, nella ricca rassegna, ci sono anche le tavole di Gabriele Galantara, fondatore del giornale satirico «L’Asino», le vignette fantasmagoriche di Filippo Scarpelli, disegnate per le copertine della rivista torinese «Numero», i rarissimi volantini del pacifista Giuseppe Scalarini che presenta il conflitto bellico come grande occasione di profitto per i ben pasciuti capitalisti. In controtendenza, l’opera del futurista Francesco Cangiulo che, in nome della massima marinettiana «guerra sola igiene del mondo», se la prende con un altro futurista, Carlo Carrà, colpevole di essere un interventista tiepido, quasi pentito degli eroici furori della prima ora. Molto da vedere, dicevamo, molto per riflettere. Ad esempio, proprio sull’interventismo. Perché quello dei socialisti mussoliniani, dei sindacalisti, di non pochi anarchici sventolava il vessillo della guerra come occasione «rivoluzionaria». Perché il rosso e il nero si mescolavano spesso e volentieri e alcune tra le più intense pagine contro gli Stati Maggiori che mandano al macello migliaia di poveri, umili fanti furono scritte dal giovanissimo volontario e futuro squadrista arcifascista e arcitaliano Malaparte - ma allora si chiamava ancora Kurt Suckert - in un libro sovversivo come «Viva Caporetto!». Il pamphlet (in seguito si chiamerà «La rivolta dei santi maledetti») fu più volte oggetto di sequestro da parte dei prefetti e di furibondi attacchi da quella dei nazionalisti «borghesi» e «patrioti» che spaccavano le vetrine delle librerie dove era esposto. Insomma, capire i mille «perché?» che stanno dietro a un evento «cosmico» come la guerra e che muovono idee ed emozioni di chi vi viene gettato e di chi vi si tuffa dentro, non è facile. L’uomo, l’umanità, la disumanità non sono «facili». E ieri come oggi impongono domande cruciali a cui continuiamo a non saper rispondere.