Torna in libreria «Shining», romanzo di Stephen King
Quando Stephen King vide il film sbuffò e disse: «Non è molto coerente con il mio romanzo...», Stanley Kubrick gli rispose: «E allora? Il tuo romanzo non è certo un capolavoro». Era il 1980 e, forse, a nessuno dei due passò per la mente che avevano realizzato qualcosa che sarebbe rimasto, nel suo genere, nella Storia tanto della letteratura e del cinema. Eppure «The Shining», il terzo romanzo dello scrittore, terzultimo film del regista, si è subito imposto ovunque, rilanciandosi in una vorticosa sinergia tra libro e pellicola, fino a generare, con i suoi concetti deliranti e le sue immagini da brivido, l’immagine stessa dell’horror «di qualità». Anzi, è proprio con «Shining» che questo genere si nobilita ed entra nell’olimpo dei capolavori. «L’Overlook si compone di centodieci alloggi. Di questi, trenta, tutti appartamentini, si trovano al terzo piano. Dieci nell’ala ovest, incluso l’Appartamento presidenziale, dieci nel corpo centrale e dieci nell’ala est...». L’Hotel Overlook, vero protagonista di romanzo e film, è un gigantesco labirinto, come il romanzo «Shining», che ora torna il libreria pubblicato da Bompiani in una bella edizione (13 euro, 591 pagine). Questa è una delle prime cose che colpisce del romanzo: è imponente. Il legame genetico tra King e il padre di tutti gli orrori dell’universo, Edgar Allan Poe, è evidente e dichiarato. Ma contrariamente al suo Maestro al quale, peraltro, King fa continui ed espliciti riferimenti, in «Shining» non sceglie la strada del breve, dell’allusivo, del non detto. Poe, ma in genere tutto il genere gotico, e precedentemente la poesia ossianica e poi ancora gli epigoni successivi, come Lovecraft, incentrarono il loro impegno narrativo sul racconto o sul romanzo breve. Lo stesso mitico «La maschera della morte rossa», scritto da Poe nel 1842, che ha ispirato generazioni di autori e ben quattro film, è un racconto fatto di una manciata di pagine. Una scelta precisa, fatta di perfezione raggiunta nel «levare», nel ridurre, nell’asciugare gelidi concetti fino a giungere all’osso del terrore. King no. Riconosce i suoi maestri e a questi offre sacrifici umani (nei suoi libri, naturalmente), ma segue un’altra strada: quella del cammino psicologico. «Shining» è un lungo viaggio nel mistero della pazzia, che non arriva di colpo, ma è come l’acqua che entra in una nave con una piccola falla, riempiendola, lentamente, fino a farla affondare. E forse è questo che, nel romanzo, ha conquistato Kubrick, che lo portò sul grande schermo tre anni dopo la sua uscita. Ovviamente il regista, pur rispettando a modo suo l’opera di King, alla fine ne fa quello che vuole, intrecciando con lo scrittore molto più giovane di lui, un rapporto fatto di rispetto, ma anche di incomunicabilità. Shining, soprattutto, per Kubrick, era un film che si poteva fare. Complesso, certo, che nasceva da un’opera imponente che, solo apparentemente, si basava sull’antico mito claustrofobico del castello che al tempo stesso è protezione e prigionia, trovando la sua origine nel mitologico Labirinto di Dedalo. Quest’idea, che è poi quella de «La maschera della morte rossa», è solo il punto di partenza. La narrazione si dipana su tre livelli: quelli di Jack, il padre; Wendy, la mamma e Danny, il loro bambino dai poteri paranormali. Le psicologie dei tre personaggi vengono setacciate da King che focalizza il cammino di Jack, scrittore fallito, alcolizzato (ma questo nel film non è chiaro), una persona in realtà fragile nella quale pazzia e fantasmi entrano come l’acqua nella nave... lentamente fino a farla affondare. Per Kubrick quella era una sfida complessa, che lui considerava alla sua altezza, difficile, certo, ma non il tunnel dal quale non era riuscito ad uscire come il mai realizzato «Napoleone». Quando sentivano il nome di Kubrick i produttori erano terrorizzati. Il film immediatamente precedente a «Shining» fu «Barry Lyndon», del 1975, un’opera costata, tra stesura della sceneggiatura, preparazione e lavorazione, uno sproposito. Un capolavoro, certo, ma i produttori volevano anche qualcosa che si potesse vendere, che ripagasse al botteghino in tempi ragionevoli tutti gli investimenti. Ma tra le tante qualità di Kubrick la ragionevolezza non aveva mai brillato. Maniacale, ossessivo, perfezionista fino all’autolesionismo, alla fine degli anni Settanta era considerato da molti uno dei massimi registi viventi, ma aveva litigato con tutta Hollywood ed era anche molto, molto criticato. Il suo cinema era considerato riottoso, elitario, criptico. In una parola: noioso. Per Kubrick quello «Shining» rappresentava una gran bella carta da giocare. Per King, da poco divenuto famoso con il terribile «Carrie» (in queste settimane è uscito nelle sale il remake firmato da Kimberley Peirce del film di Brian De Palma), vedersi portato sul grande schermo da un autore del calibro di Kubrick era un’occasione da non perdere. Certo, due big di quella portata non potevano andare d’accordo più di tanto... ma in fondo non ce n’era bisogno. Alla psicologia complessa e marcia di Jack Torrance diede alla fine il volto un non più giovanissimo Jack Nicholson. Pagine e pagine di follia si fusero in uno dei personaggi cinematografici più riusciti della Storia. La forza letteraria di King fu convogliata da Kubrick nel ghigno satanico di Nicholson che spunta tra le schegge della porta sfondata a colpi d’ascia. E il mondo avrà per sempre paura.