Mussolini e i fascisti pionieri delle riforme in camicia nera
È quantomeno curioso come oltre un secolo fa il dibattito politico e giuridico ruotasse, come oggi, attorno alle forme del parlamentarismo e ai suoi corollari istituzionali: monocameralismo, bicameralismo, ruolo del Senato, poteri dell’esecutivo. Al crepuscolo dello Stato liberale, negli anni successivi la Grande Guerra, l’attenzione dei politici e degli studiosi fu viva su questi temi, unitamente alla riflessione sulla legge elettorale, riconosciuta l’esigenza di dare maggiore rappresentanza alle istanze «reali» del Paese, senza peraltro trascurare le espressioni più propriamente politiche che avevano un peso notevole nella formazione degli orientamenti dell’opinione pubblica. Il fascismo che in questo contesto in qualche modo «rivoluzionario» andava formandosi come struttura politica tesa alla conquista del potere, s’immerse nella profondità della discussione istituzionale facendo valere le sue idee in tutti gli ambiti nei quali era possibile aggiungere la sua voce alle molte che si levavano a favore della modernizzazione dello Stato sia pure nel solco e nei limiti dello Statuto Albertino. Il fascismo non si poneva come elemento «sovversivo» nel contribuire alla svolta nella formazione di istituti politico-costituzionali rispondenti alle esigenze dei tempi. La sua è stata una lunga «rivoluzione permanente» che non si è arrestata di fronte a nessuna delle «conquiste» realizzate. Una rivoluzione alla quale parteciparono, in posizioni diverse e soprattutto nelle prime fasi della gestione dello Stato, quando il fascismo non si era ancora costituito come «regime» ed era - secondo la brillante definizione di Renzo De Felice - un «movimento» animato da spinte diverse, forte della capacità di sintesi di Mussolini affiancato da una classe dirigente della quale facevano parte personalità che non venivano dai ranghi del partito. Francesco Perfetti nel delineare nel suo denso saggio «Fascismo e riforme istituzionali» (Le Lettere, pp.184, 20 euro) il cammino del fascismo attraverso la trasformazione dello Stato offre un apporto decisivo alla comprensione di una rivoluzione che in maniera banale e superficiale viene tuttora liquidata come «totalitaria» chiudendo in tal modo la discussione su uno dei periodi più fecondi, ancorché criticabili, com’è ovvio che sia, della storia italiana del Novecento. La realtà è molto più complessa. E se si tenessero in debito conto gli studi del già citato De Felice, di Alberto Maria Ghisalberti e soprattutto di Alberto Aquarone, ma anche le riflessioni di personalità della cultura e della politica come Melograni e Giorgio Amendola, passando per Gramsci, Togliatti e Vivarelli, si comprenderebbe che il «lungo viaggio attraverso il fascismo», per dirla con Ruggero Zangrandi, non può prescindere dalla riflessione sulle istituzioni che come ebbe a dire Alfredo Rocco sono qualcosa che assomiglia a ciò che genera l’ape nel momento in cui muore: quando la rivoluzione le crea essa esaurisce il proprio compito per inverarsi in esse. Perfetti, allievo di De Felice e di Romeo, ma discendente dalla grande scuola storica di Gioacchino Volpe, da studioso del fascismo, del sindacalismo, del nazionalismo e del fiumanesimo dannunziano penetra l’essenza di una rivoluzione che ha oscillato tra istanze estremistiche e l’aspirazione ad inserire il nuovo edificio istituzionale nell’ambito della tradizione conservatrice. Non si può dire che abbia fallito lo scopo poiché il parlamentarismo ostativo al decisionismo da più parti invocato, anche presso ambienti liberali, fino ad un certo punto si è fuso con le tendenze proprie di una concezione dello Stato imperniata intorno al principio di autorità mitigato dalla partecipazione attraverso le strutture del Partito che divenne da un certo punto in poi, dopo il varo delle cosiddette «leggi fascistissime» del 1925, il motore del sistema. E da qui prese a concretizzarsi nella formazione delle istituzioni - dalla costituzionalizzazione del Gran Consiglio all’inserimento nei corpi dello stato delle milizie squadriste ridefinite Milizia volontaria di sicurezza nazionale, al varo della Camera dei Fasci e delle Corporazioni che effettivamente superò il Parlamento così come era stato inteso fino al 1939 - quella visione che aveva acceso l’attenzione non solo di Mussolini, ma anche delle più eminenti personalità che lo affiancavano subito dopo la presa del potere. Ricorda Perfetti che il capo del Governo, l’8 giugno 1923, sostenne che il parlamentarismo era stato ferito gravemente dal sindacalismo e dal giornalismo, fenomeni tipici «della civiltà capitalistica», «i quali avevano ridotto l’importanza attribuita al Parlamento, tanto che esso non poteva più essere considerato un istituto capace di contenere tutta la vita di una nazione divenuta eccezionalmente complessa». Il ché non significava abolire il Parlamento, per Mussolini, ma ridargli nuovo vigore in linea con le esigenze dei tempi, debellando innanzitutto il barocchismo che rallentava le funzioni dell’esecutivo. Manifestava, dunque, l’intenzione di migliorarlo, perfezionarlo, correggerne le procedure, «farne una cosa seria» ed anche «solenne». Da qui la sollecitazione alle forze politiche di varare una nuova legge elettorale che dopo infiniti dibattiti prese le forme della cosiddetta «legge Acerbo», maggioritaria nella sostanza che tuttavia garantiva la rappresentatività di tutti i partiti rilevanti. Poi si cominciò a discutere di riforme. E vennero varate commissioni presiedute da uomini come Giolitti, Solmi, Gentile. Ma chi raccolse la semina teorica e politica nel delineare il volto del nuovo Stato fu Rocco, giurista raffinato e non certo manutengolo del regime, su cui molti luoghi comuni si sono affastellati, mentre andrebbe riconosciuto come un cultore dell’autorità, in linea con quanto si muoveva in Europa all’epoca, che cercò, riuscendoci, di modernizzare lo Stato in linea con le esigenze dei tempi nuovi. Il suo Codice, per dirla tutta, non è una raccolta di nefandezze tanto che l’impianto resta ancora integro dopo oltre ottant’anni. Dalle pagine di Perfetti che sarebbe impossibile riassumere, si ricava, per la sorpresa di chi si è cibato di luoghi comuni, che nel Ventennio sulle questioni cruciali attinenti alle riforme istituzionali si svolse un ampio ed aspro dibattito che coinvolse anche le gerarchie del partito e dello Stato e si sviluppò sulle riviste teoriche e sui giornali dove l’eresia e l’ortodossia si confrontavano mettendo in discussione perfino le funzioni del capo del Governo e le stesse Corporazioni. La guerra, poi, spazzò via tutto. E gli errori coronati da orrori piegarono alle ragioni dei vincitori quel libero dibattito sulle trasformazioni istituzionali che, guarda caso, ritorna esattamente al punto in cui cominciò un secolo fa: il parlamentarismo, gioie e dolori di tutte le democrazie. Anche di quelle high-tech.