Quel Figaro, che faccendiere

Sela fa con le donnette e coi cavalieri, come ammicca nella cavatina più celebre della storia del melodramma. Figaro, barbiere di Siviglia, è il factotum della città, plebeissimo tagliabarbe protagonista di un'irresistibile ascesa. Il pubblico che ieri sera affollava il foyer del Teatro dell'Opera di Roma per la prima dell'opera di Gioachino Rossini oltre all'occasione mondana - l'aria di primavera, ancorché piovosa, induce le signore a decolletée audaci, come quello di Daniela Traldi - avrà certo pensato a certi tipi sempre più potenti oggi, ad onta di formazione, competenza, credibilità. Perché hanno voglia il professor Monti e lo stesso Presidente Napolitano a invocare rigore, rispetto della legge, a chiamare gli evasori parassiti. Il nuovo che avanza è ancora quello dei furbetti, dei faccendieri, dei procacciatori di escort, degli insabbiatori di beni e di diamanti. Gioachino Rossini è stato un compositore prodigio, al pari solo di un altro, Mozart, peraltro morto tre mesi prima che il pesarese nascesse, nel 1792. A quattordici anni compose la prima opera. Una questione soltanto di genio. Perché la famiglia era ruspante. La madre, sì, faceva bene la cantante. Ma il padre era un sanguigno natio di Lugo di Romagna: lo chiamavano Vivazza, suonava per professione nella banda cittadina. La rivoluzione francese era il suo pallino e rallegrare con la musica le truppe d'occupazione parigine lo esaltava. Eccolo, il nucleo del Barbiere di Siviglia, che Gioachino compose nel 1815, a ventidue anni. Anche se poi scelse la prudenza politica e non si sbilanciò troppo tra giacobini e monarchici. Ma insomma, il mondo era sottosopra, il caos regnava, il futuro incerto e di chi sgomitava di più. Per questo Figaro a forza di tosare barbe e capelli, di sciorinare forbici e asciugamani, di servire signori e madame, di ascoltare pettegolezzi e confessioni, diventa il più potente della città. Un factotum, un faccendiere, per dirla con la parola in voga oggi. Del resto il precedente del Barbiere, la commedia del francese Beaumarchais, era l'àncora. L'assunto consisteva nel proletariato che s'impone dopo la Presa della Bastiglia. Ed è un sollazzo vedere accontentato il conte d'Almaviva (il titolo originario è «Almaviva o l'inutile precauzione») nelle mire sulla bella Rosina solo grazie alle trame di Figaro, più compare che servo del blasonato. Anche Giovanni Paisiello aveva messo in musica la storia ambientata in Spagna. E forse fu proprio la sua rivalità con Rossini a determinare il fiasco della prima del «Barbiere di Siviglia». Il «Cigno di Pesaro» aveva avuto la commissione di confezionarla per il Carnevale Romano del 1816 dagli impresari del Teatro Argentina. Come un fulmine affidò il libretto a Cesare Sterbini. Ma la prima fu subissata di fischi. I rumors raccontavano anche di guastatori inviati dall'impresario del vicino Teatro Valle. Fatto sta che il battesimo del «Barbiere» fu agitato. Dopo invece, dal crescendo ossessivo di «tutti mi vogliono, tutti mi cercano» al lieto fine, la mala parata si mutò in successo. Che continua a sorridere alla più antica tra le opere ancora rappresentate.