di Laura Cervellione Biagio Simonetta va letto mettendosi l'anima in pace che bisogna lasciare ogni speranza, nel momento in cui si entra nell'inferno descritto da «Faide.

L'autore,classe 1980, vive a Milano, ma è nato a Cosenza e ha a lungo seguito i lati bui della punta dello stivale lavorando al "Quotidiano della Calabria". Una regione che non ha mai dimenticato, e che ora racconta in un romanzo-reportage che, alla faccia della crisi del libro, ha mandato in stamperia una terza edizione in soli due mesi. L'incipit morale del racconto del potere "de facto" che incancrenisce la terra natìa del giovane giornalista lo si trova in queste parole: «La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile. E questa disperazione avvolge il mio paese da molto tempo». Così nei lontani anni Cinquanta il giornalista e poeta calabrese Corrado Alvaro nel suo diario poneva la questione, assillante per l'Italia, del vuoto di legalità. Se non c'è diritto non c'è società possibile, ma solo un hobbesiano stato di natura con poche mosche bianche, che vagano, appunto, disperate. «Faide» procede sulla falsariga di tale sentimento. L'impero sconfinato delle 'ndrine collega mondi solo apparentemente agli antipodi. Da una piccola sala giochi nel Crotonese si arriva in un attimo in una pizzeria di Duisburg, triste teatro della faida di San Luca, sei giovani freddati con un colpo alla testa. Le 'ndrine s'infiltrano nella Milano da bere, così come sono il vero motivo della rivolta degli africani a Rosarno. Ma la mala calabrese è soprattutto una potentissima multinazionale, con annesse "joint ventures" in Europa dell'Est, Cina, America. Leggendo queste pagine scritte in prima persona si viene avvinti nel pieno del fenomeno 'ndrangheta, oggetto che incute paura solo a pronunciarlo ma di cui effettivamente si sa poco. Biagio Simonetta racconta che Cosa Nuova, così è ora soprannominata la criminalità organizzata calabrese, è la mafia più potente al mondo, con un fatturato annuo di 44 miliardi di euro. Di questi, 27 miliardi vengono dal traffico di droga, soprattutto cocaina, che in Lombardia trova il suo mercato più florido. Si scopre anche che i boss non sono più trogloditi armati di lupara, ma raffinati gentlemen dai colletti bianchi che attraverso il porto di Gioia Tauro intrattengono giri di narcotraffico internazionali: centinaia di tonnellate di cocaina, l'ottanta per cento della polvere bianca che arriva in Europa dal Sudamerica, accompagnate da container carichi di kalashnikov. Altro che sughi pronti. E Al-Qaeda, mafia turca, signori della guerra dell'oro congolese sono i clienti papabili. La statale 106 che collega Reggio Calabria a Taranto è il lungo e assolato corpo del reato di appalti finiti alle imprese dei clan. Su quell'asfalto ogni notte pullulano decine di ragazze dell'Est per vendere il proprio corpo, è l'altra voce in bilancio delle 'ndrine: il mercato della prostituzione, gestito d'intesa con Albania, vale un miliardo di euro all'anno, che arriva a 3 miliardi se si considera anche il business delle case chiuse. Ancora, si impara che la mafia calabrese, a differenza delle altre, è una piramide costruita sul vincolo di sangue, e che conta il minor numero di collaboratori di giustizia rispetto alle altre organizzazioni malavitose. Un bizzarro intreccio tra santini e Blackberry, tra leggi primitive e postmodernità, che ha del favoloso. Da un lato, c'è l'attaccamento più cocciuto a valori "vecchia maniera", come l'onore della famiglia e il rispetto della parola data. Dall'altro lato, troviamo evoluti affaristi che si circondano degli strateghi, globetrotter ed economisti di maggior pregio, i quali mantengono ben oliato l'ingranaggio di questo capitalismo criminale. Oltre a illuminare l'oggetto 'ndrangheta, però, all'autore preme di riportare le storie di persone la cui vita non ha potuto seguire un corso normale proprio per la presenza di questa metastasi socioeconomica. Vicende narrate dalla voce di persone che ci sono cascate, o che hanno resistito con eroismo. Alcuni dei personaggi sono frutto della fantasia, ma quel che è loro accaduto è vero e documentato. Il racconto non risparmia il lettore dai dettagli nudi e crudi. Anna è una bambina dai bei capelli biondi, che un cancro le fa cadere: abita a Pertusola Sud, in un condominio costruito dalla 'ndrangheta sulle scorie tossiche. Suo padre alla sera si chiude in bagno a singhiozzare per l'impotenza. Pasquale è un ragazzo che per sfuggire a una vita povera rimane intrappolato nella tela del ragno e finisce sgozzato con un fil di ferro dal capoclan per una dose tagliata male, che fatalmente andrà a uccidere il figlio di un boss. Poi ci sono i mostri invisibili, i veleni sottoterra, le navi cariche di scorie in fondo al mare: un business, quello delle ecomafie, che gonfia le tasche delle 'ndrine di 20 miliardi di euro l'anno, e che per lo meno a livello di opinione pubblica non è mai venuto a galla, è proprio il caso di dire. Ma sommerse sono anzitutto le persone, i morti mai ritrovati. Seppelliti vivi in piloni di cemento. Dissolti, come Lea Garofalo. Una tanica piena di acido muriatico procurata dai cinesi di Chinatown a Milano. Questione di un attimo. Si comincia dal baretto di periferia per arrivare a scalare la borsa di Francoforte. E i mezzi di questa mala sono talvolta così insignificanti, basta dare un euro al parcheggiatore fuori dalla discoteca per alimentarne le casse. Di romanzesco in "Faide" c'è poco. Ma perché la realtà stessa non ha bisogno di finzioni per lasciare di stucco.