Meno oro più fiuto nel New Richestan

Erail 2008 quando, senza invito, i lettori di Richestan sono entrati nei jet dei milionari, immaginato il profumo della pelle color champagne, partecipato ai progetti di palazzi smisurati, addestrato eserciti di collaboratori e camerieri, osservato come i ricchi sfondati spendevano i loro fantastilioni. A distanza di quattro anni, Frank riapre le porte dello stesso mondo e lo ritrova indiscutibilmente meno dorato. Il titolo la dice lunga: The High-Beta Rich che accosta la sorte dei titoli tecnologici a quella di chi ha ricavato gran parte delle proprie ricchezze dalle speculazioni finanziarie. Vale a dire con oscillazioni rapide e ampie fra creazione e distruzione di valore: dunque decisamente instabile. Se nel primo best seller, Frank ha osservato con lo spirito dell'instancabile inviato e lo sguardo del diligente cronista, capricci e desideri dei nuovi ricchi in una potente istantanea di un'epoca dorata, nella sua seconda spedizione è incappato in avventure ben più interessanti. Dal punto di vista giornalistico, ovviamente. Gli abitanti di Richestan sono in subbuglio: girata la sorte dei mercati, molte fortune si sono perse, parecchi beni sono stati sequestrati, e lo stile di vita di molti ha iniziato a scricchiolare. Due esempi per tutti: quello della famiglia Siegel, che stava costruendo una villa in Florida chiamata Versailles, così vasta che non si poteva attraversare a piedi, fino a quando il loro business è stato pesantemente colpito dalla crisi del credito. Ora le loro piscine, le loro piste da bowling e i loro cinema sono scheletri in costruzione. E quello della famiglia Blixseth, una delle famiglie più ricche d'America (al posto 322 nella lista Forbes dei più ricchi del mondo nel 2006), ora presa d'assalto da creditori inferociti. Ma dove c'è crisi, c'è opportunità, dicono i più avveduti investitori. E così nasce una classe di nuovi ricchi che aspetta il momento più profondo della recessione per accaparrarsi a ottimi prezzi proprietà, jet, barche, quadri e altri ninnoli dorati. «È l'arte di conquistare in un batter d'occhio i possedimenti più pregiati dei ricchi», spiega Frank raccontando come questi uomini-avvoltoi siano rapidi nell'intrufolarsi negli hangar privati: tra il 1995 e il 2010 il numero di jet privati in aria è più che raddoppiato, da 7.176 a 17.199. Ma parecchi proprietari di jet che hanno utilizzato denaro ottenuto facilmente in prestito, ora volano decisamente meno in alto. Molti commentatori americani non si commuovono e tengono la parte degli occupanti di Wall Street. Dopo tutto, per ogni milionario - o miliardario - che ha perso un jet, molti altri sono rimasti ultra ricchi. E la perdita di una piscina è banale in confronto alla sofferenza dei poveri degli Stati Uniti che hanno perso casa e lavoro. Ma ciò che rende affascinante libro di Frank non è tanto la lettura economica, quanto lo scenario che riflette un cambiamento ben più ampio, quello sociale. Durante la maggior parte della sua storia, la società americana ha ammirato il mondo dei ricchi perché c'era la diffusa convinzione che chiunque, se abbastanza intelligente, sarebbe potuto diventare ricco. Il sogno - o mito - della mobilità sociale è stato il collante che ha contribuito a mantenere unita l'America. Ma ora le più credibili statistiche rilevano come gli americani poveri abbiano infinitamente meno possibilità di salire in quel desiderato "1 per cento" rispetto ad altre parti d'Europa. E che la perdita della speranza in questo sogno di mobilità - o mito - aumenti il disagio sociale, al di là di ogni rabbia per la presenza di Richestan. In un certo senso, il libro di Frank potrebbe offrire il supporto per quel sogno americano: se vi è stata la mobilità verso il basso tra miliardari a partire dal 2007, si dovrebbe teoricamente essere creato spazio per la crescita. Statisticamente però non è chiaro se ci sia stata sufficiente mobilità verso il basso per permettere all'ascensore sociale di salire: i dati affermano che negli ultimi anni le oscillazioni fra la creazione e la distruzione di ricchezza sono diventate molto più violente. Bello sarebbe se questo trend fosse dovuto alla meritocrazia tipica del sogno americano, alla sana competizione per emergere. In realtà, sembra riflettere il fatto che la moderna ricchezza americana è stata sempre più creata dal trading finanziario, piuttosto che dalla produzione di beni. Così, come il mercato, ha oscillato anche la ricchezza di Richestan. E non finisce qui: questa evoluzione al basso ha portato un impatto pericoloso non soltanto sull'economia in generale ma anche sul dibattito politico. Quando un'élite si sente sicura nella sua posizione - e avverte un senso di imbarazzo nei confronti della società - allora è più facile che - ma questo accade in America - abbandoni volontariamente agevolazioni fiscali per i jet aziendali o si impegni in progetti filantropici. Noblesse oblige. Ma se la stessa élite avverte il peso della fragilità della propria ricchezza, è assai probabile che anche la generosità vacilli. E in un Paese in cui l'1 per cento degli americani guadagna circa il venti per cento del reddito nazionale e paga più del 38 per cento delle imposte sul reddito federali degli Stati Uniti, questo diventa un problema ancor più grande. C'è dunque una cosa, vera e profonda, che lega Occupy Wall Street e Richestan: l'angoscia per il futuro. Anche per coloro che (ancora) volano con il jet.