L’equivoco della cultura di Stato

La goffaggine con cui la giunta capitolina ha maneggiato il caso Muti, ottenendone lo schiaffo del rifiuto del cadeau – la cittadinanza onoraria – che gli era stato offerto ripropone l’ormai vecchio problemino della natura e delle cause della manifesta imperizia degli uomini del centrodestra sul fronte dell’arte e dello spettacolo. Evidentemente si tratta di un’inettitudine dovuta a quella scarsa o nulla dimestichezza coi fatti e i problemi della cultura che ancora oggi, dopo non pochi anni di esercizio del potere, sembra renderli incapaci di contrapporre, nella gestione del ramo arte, spettacolo, beni culturali e simili, una strategia e uno stile convincenti a quelli che in questo campo assicurano tuttora il successo della famosa egemonia della sinistra. Ma questa peculiare inettitudine non avrebbe modo di manifestarsi se non fosse tollerata e incoraggiata da un clima di generale e diffusa incapacità e sventatezza politica. Ragion per cui sospettiamo che anche a quanti si ostinano a riporre la loro fiducia nell’avventura politica del berlusconismo, tutte le volte che accadono episodi come quest’ultima gaffe, potrebbe venir voglia di esclamare: “Per piacere, giù le mani dalla cultura”. A generare questo disgraziato infortunio non si può naturalmente escludere che abbia influito non poco – insieme all’assurda sventatezza di quegli elementi dell’amministrazione romana che con le loro piccole beghe e rivalità interne hanno provocato l’irritazione di Muti – anche qualche altro fattore. Per esempio, il suo ben noto carattere orgoglioso e, come si dice a Roma, fumantino. Né è del tutto irragionevole il sospetto che il vero motivo del suo rifiuto – benché gli venga attribuita da sempre una profonda, invincibile ripugnanza per qualsiasi atteggiamento che possa essere scambiato per una presa di posizione politica – sia in effetti il desiderio di evitare di lasciarsi incoronare “civis romanus” da un collegio di rappresentanti di una destra oggi ritenuta, a torto o a ragione, sul viale del tramonto. Ma anche ammessi questi moventi collaterali, e riconosciuto il loro valore di attenuanti, l’episodio resta ugualmente un clamoroso prodotto della mortificante rozzezza di certe pattuglie del centrodestra. Esse hanno infatti una sola scusante: quella di essere, nella gestione delle acque culturali del Paese, dei novellini che sono venuti a trovarsi di fronte a un compito immane: rimediare agli infiniti guasti prodotti nel settore dallo strapotere esercitatovi per più decenni da una sinistra che non per nulla pretende di definirsi da sempre “il partito della cultura”. Fra i quali spicca, naturalmente, quel guasto primordiale che è lo stesso concetto di “politica culturale”, coniato non per caso nelle officine dell’ormai defunto Pci, ma il cui presupposto essenziale resta l’idea che la vita della cultura, l’organizzazione delle sue strutture e la determinazione dei suoi orientamenti debbano essere affidati ai partiti e allo Stato, anzi, possibilmente, allo Stato-Partito. Mentre dovrebb’essere ormai evidente per tutti che fra i principali requisiti di una stato liberale figura proprio l’indipendenza della cultura dalla politica. Ma che fine ha fatto oggi, nel gran corpo delle forze del nostro centrodestra, il fattore L, il fattore liberale? Per capire fino a che punto questo fattore sia assente dal dna del nostro paese, basta chiedersi in che modo un episodio come il nostro caso Muti verrebbe gestito in un paese schiettamente liberale, per esempio negli Stati Uniti. Bene: non verrebbe gestito in nessun modo, anzi non potrebbe nemmeno accadere, e questo per la semplice ragione che è escluso che negli Usa lo Stato possa e debba impicciarsi dei casi della cultura, ragion per cui in quel Paese in nessun caso il nome e il prestigio di un vero o supposto grande artista possa essere usato come un gettone o un vessillo in una partita politica. Certo anche lì ogni tanto qualche personaggio più o meno eminente viene onorato da qualche città con l’attribuzione della cittadinanza onoraria, mai però questo è avvenuto nelle forme di una rissa fra partiti, o fra cricche all’interno di un partito. Arcinoto è del resto il motivo per cui simili miserie – tipiche di uno stato gagliardamente assistenziale e burocratico come il nostro – in paesi più liberali non possono invece avvenire. Non vi posso avvenire perché in essi, come sanno anche i piccini, ma come i nostri intellettuali non soltanto di sinistra ma spesso anche di destra evitano di ricordare, la cultura, diversamente che da noi, dove essa dipende in larghissima misura dalle sovvenzioni statali, può al contrario prosperare soprattutto grazie a un sistema fiscale che prevede cospicue esenzioni per gli investimenti in quel settore. Una cultura, dunque, che anziché esigere e mendicare sussidi e allori statali preferisca affidarsi al mercato e al mecenatismo privato: ecco di cosa il Paese ha bisogno. Sicché la cosa migliore che le pubbliche istituzioni possono fare per la cultura è occuparsene il meno possibile, imparando al più presto a occuparsene, quando è inevitabile farlo, con la necessaria competenza e la dovuta educazione. E speriamo che prima o poi queste ovvietà tornino presto a ispirare sul serio il Partito della Libertà.