Stavolta si spogliano gli scrittori

Ilcorpo esibito per fare audience. Quello sbandierato («l'utero è mio e me lo gestisco io») dalle femministe d'antan. Quello conformista delle neofemministe scese in piazza («se non ora quando?») a scandalizzarsi delle «ragasse» del Cav. Appunto, il corpo che mette di buon umore il premier, lo stesso che arriverà procace nelle aule giudiziarie. Lo stesso che mise nei guai Bill Clinton e che non smosse di un filo il potere di monsieur le president Mitterrand. Ma il corpo degli scrittori? Quello dei romanzieri, dei poeti, dei padri della letteratura italiana? Il corpo che fece melanconico e disilluso Leopardi, narciso D'Annunzio, furioso Dante, irridente Boccaccio? Un librone di seicento pagine ora rintraccia immagini, pagine, idee degli autori italiani sulla fisicità propria e dei propri personaggi. Si intitola «Attorno a questo mio corpo - Ritratti e autoritratti della letteratura italiana» ed è curato per l'editrice Hacca da Laura Pacelli, Maria Francesca Papi e Fabio Pierangeli. I quali hanno chiesto a grandi firme della critica letteraria o della storia della letteratura di lavorare attorno a un autore. Dice Andrea Di Consoli, editor di Hacca: «L'idea di partenza è stata quella di fare una piccola storia della letteratura costruita però dal "basso", attraverso la specola del corpo degli scrittori. Dunque indagando la salute, le patologie, le nevrosi, le mani, gli occhi, le fattezze, il respiro, gli affanni degli scrittori. Leggendo queste biografie corporali, questi ritratti di carne si prova lo stupore di sentire il genio e il talento a una vicinanza estrema, cioè fraterna». E così escono fuori umori inediti se, oltre ai curatori, tutti italianisti nelle università romane, un Dante Maffia «spoglia» Tommaso Campanella, se il severo Giulio Ferroni dipinge l'ambiguo ritratto postumo di Machiavelli o dell'ipocondriaco Metastasio, se Elio Pecora scava nel profilo di Dario Bellezza. Ci sono autori che smaterializzano il corpo, lo liofilizzano, ne prendono le distanze. Altri che mettono in mostra le viscere, e ci arzigogolano baroccamente sopra. Lo fa lo sghignazzante Gran Lombardo Carlo Emilio Gadda. Stregato a tal punto dall'aspetto fisico del suo interlocutore da confessare che «gli do del tu perché ha bei denti». Le membra sono l'elemento del suo esplosivo fantastico immaginario. Ma parla soprattutto di sé, Gadda. Costretto a giostrare tra l'inguaribile ingordigia e i disturbi intestinali, come ricostrisce Silvia Zoppi Garampi nel capitolo sull'autore del «Pasticciaccio». Gioca con le diagnosi e il lessico scientifico, l'ingegnere. La flebite gli genera lo «zampone di Modena» E quando un luminare del Policlinico gli consiglia di dimagrire mangiando un'insalata al posto del primo, lui replica: «E chi glielo dice al mio stomaco che non sono spaghetti?». Del resto il Gonzalo di «La cognizione del dolore» gli somiglia in tutto e per tutto: «Era alto, un po' curvo, di torace rotondo, maturo d'epa, colorito nel viso come una Celta...». Ecco forse perché Gadda detestava che si pubblicasse sui risvolti di copertina la sua «facciazza». Si schermiva, odiava l'Io, «il più farabutto dei pronomi, con collo ritto, pettoruto, fanfaronesco e narcisistico». Si prende in giro anche Ennio Flaiano. «Un signore ancor giovane, di statura inferiore alla media, si è fatto crescere un paio di baffi la cui profonda malinconia è appunto inversamente proporzionale alla loro sterile disinvoltura», scrive nell'«Autobiografia del Blu di Prussia». Pare rivedere la foto, ricorda Andrea Lombardinilo, nella quale stringe la mano, e guarda dal basso in alto, «Anitona» Ekberg in una pausa delle riprese di «La dolce vita». Ma scherza anche sui suoi malanni. «Sono convinto che colpiscano attraverso i premi letterari o teatrali, giurie e robe del genere» scrive in una lettera dopo l'infarto subito nel 1970. O ancora, rivolgendosi a un suo recensore: «Ti ringrazio di cuore, cioè con quel po' di cuore che funziona». All'opposto Gabriele d'Annunzio che trasmette di sé un'immagine sempre vitalistica. Inneggia ai traguardi ginnici che sfidano la vecchiaia, si pavoneggia con un «Io non sono un letterato dello stampo antico, in papalina e pantofole». Fa tutti gli sport: cavalca, va a caccia, gioca a football, giostra di spada, si allena al punching ball, gareggia con l'hockey. Pascoli prende in giro il suo frac rosso e lui rilancia: «Come potrò piacere alla gente senza un po' di sport? Ché lo sport è ormai necessario allo scrittore, oh, più dell'ingegno! Più dello studio! E anzi si può dire che la letteratura sia essa tutto uno sport, una cavalcata in frac rosso». L'altro esercizio lo pratica con le sue amanti. Nel 1914 contrae una malattia venerea e scrive a Luigi Albertini, il patron del Corriere della Sera: «Niente di grave, un malanno tragicomico. Ma io ero preso in condizione singolare, per la prima volta da che vivo, dopo anni anni ed anni d'una specie d'immunità che stupiva gli altri e me stesso». Andando indietro nei secoli, ecco la tempra di Alfieri, che pure si idealizza meno di quanto non faccia Foscolo, descrivendolo. Così, se l'uomo del «fortissimamente volli» si descrive in un sonetto con «capelli or radi in fronte, rossi pretti, lunga statura, capo a terra prono», il poeta dei «Sepolcri» calca sul tasto del romanticismo e di Alfieri racconta che «avea sul volto il pallor della morte e la speranza». Sono i versi di Amelia Rosselli a dare il titolo a questa singolare storia letteraria. «Attorno a questo mio corpo / stretto in mille schegge, io / corro vendemmiando, sibilando / come il vento d'estate, che / si nasconde». Mai autore è stato più nudo.