Nel limbo dello zoo-safari tra le «donne collo lungo»

Incerti angoli di mondo è sufficiente pagare un modesto biglietto d'ingresso per poter avere il raro privilegio di compiere un vero zoo-safari tra autentici «etnici in cattività». È questo il caso dell'estremo nord-ovest della Thailandia. Una tropicale e verdeggiante regione ove, da decenni, affluiscono senza posa i profughi della minoranza etnica dei Karen. Uomini, donne e bambini fuggiti alla sanguinosa guerra civile che questa minoranza etnica combatte per la propria autonomia contro il regime militare birmano di Rangoon. È in questa stessa regione, a una sola manciata di chilometri dal confine con il Myanmar e dallo stesso Triangolo D'oro, che, da qualche anno, il governo thailandese, in coordinamento con tour operator locali, ha trovato il modo di tesaurizzare la presenza dei Karen, attraverso una sistematica promozione del turismo etnico. I protagonisti sono gli stessi Karen. Vittime di un limbo senza fine. Ospiti in una terra straniera che, nell'offrire ospitalità, ne ha tuttavia congelato l'identità. Persone senza volto, a cui è negato ogni diritto di integrazione sociale o riconoscimento di una cittadinanza. Numerosissime sono le agenzie locali che propongono accattivanti pacchetti turistici dal sapore etnico. Tour alla scoperta dei tribalissimi Karen, così da poterli vedere da vicino, osservarne le abitudini e stare al loro fianco nella vita quotidiana. Uscendo dalla cittadina di Mae Hong Son, nel giro di poche ore, si possono raggiungere con facilità i campi profughi Karen pubblicizzati dai tour operator e trasformati, per lo scopo, in improbabili villaggi tribali. Alle strade diritte e asfaltate che vi conducono si susseguono sentieri polverosi, battuti su e giù da pick-up farciti di turisti. Qua e là, sporadiche, persone chine che lavorano nei campi. Più oltre, chiese appuntite che spuntano tra la folta giungla e, di tanto in tanto, cartelli gialli, inchiodati alti ai tronchi degli alberi, con lapidarie scritte in thai: «Dio osserva i tuoi peccati». Un monito disseminato come mine sparse un po' ovunque. Una rudimentale, quanto efficace, forma di controllo sociale messa in atto dai missionari protestanti che qui imperversano ovunque, facendo abbondanti messi umane. In breve iniziano ad apparire anche degli sbiaditi cartelli stradali di colore grigio, con frecce indicatorie: Karen village. Sono i segni che gli insediamenti non sono ormai distanti. Un arco trionfale in bambù, con tanto di scritta welcome e immagine dipinta di una «donna collo lungo», dice finalmente, dopo un'ennesima curva, che si è giunti a destinazione. Una «donna collo lungo», sì. Epiteto volgare e volgarizzante usato da queste parti per designare uno dei sottogruppi dei Karen, quello dei Kayan per l'appunto. Una minoranza le cui donne, assecondando un'arcaica usanza, indossano una serie di anelli metallici che hanno come risultato un vistoso allungamento del collo. Un antico mito narra infatti di come l'etnia dei Kayan, fosse originariamente nata dall'unione sacra tra un essere divino celeste, La Nan, e una potente dragonessa, Ka Kwe Bu Pe, letteralmente «la dama dallo scialle bianco e scarlatto». L'usanza di indossare gli anelli metallici avrebbe origine dunque in questa epoca mitica, come segno di identità culturale e come evidenza tangibile della discendenza diretta dalla dragonessa divina dal lungo collo. Costituito da due spirali metalliche sovrapposte, ottenute da un unico doppio filo di ottone avvolto delicatamente attorno al collo, il collare è indossato dalle fanciulle, a partire dal quarto anno di età. Ad esso vengono aggiunti, anno dopo anno, altri anelli, così da esprimere visibilmente la condizione sociale e lo status stesso della donna che li indossa. Arrivati all'ingresso del «villaggio», pagando un modesto biglietto d'ingresso di 250 Bath (qualcosa in più di cinque euro), si ha modo di accedere al regno delle «donne collo lungo». Duecento cinquanta Bath per essere invitati all'assurdo spettacolo di etnici detenuti in invisibili gabbie. E lo spettacolo è davvero assurdo. Sì, perché un campo profughi, seppur camuffato da villaggio in piena regola, mantiene un retrogusto di dolore e di desolazione che è difficile da dire. Non possiede radici. Uno spettacolo assurdo anche perché un etnico con il collo lungo, mansueto sotto i colpi di infiniti scatti fotografici, docile e cedevole ad assumere qualsiasi posa plastica gli venga richiesta pur di accontentare i gusti del visitatore, non è più una persona ma una mezza bestia sfinita e sfibrata dalla detenzione prolungata. Assurdo lo show, anche perché un popolo di antichi cacciatori e di agricoltori, ridotto a guadagnarsi il proprio vivere da dietro bancarelle ricoperte di chincaglieria, è ormai un popolo senza più una identità accettabile. Quella in vendita è davvero una chincaglieria, ossessionante, che riproduce a gran voce sempre e solo lo stesso messaggio: «colli lunghi»". E allora cartoline ingiallite con bimbe e donne sorridenti con i loro colli lunghi. Statuine in legno intagliato, di tutte le fogge e dimensioni, che ritraggono esili e stereotipate donne con il collo lungo. Bamboline sintetiche con colli lunghi. Anelli in ottone, destinati a rendere i colli lunghi, che attendono solo che un collo occidentale le acquisti come souvenir. Un intero artificiale villaggio edificato attorno e in funzione di interminabili file di bancarelle. Di controcanto a questo spettacolo della desolazione, gli impassibili e inossidabili turisti: sorridenti e indifferenti, appagati con un paio di cartoline e con una fotografia fatta al proprio bimbo deposto momentaneamente in grembo ad una donna «collo lungo», o quella scattata alla propria moglie mentre indossa per qualche secondo un vistoso fac simile del fardello metallico che ha reso note le tribali. L'occhio avido e prensile si coniuga con una basica bulimia da shopping. E tutto lì si concentra. Tutto il resto sarebbe solo un domandar troppo, francamente non esigibile da chi si vuole solo godere una vacanza di qualche giorno ai tropici. Si avanza senza posa e si consuma. Poi, come si girerebbero le spalle ad una donna cannone o ad una signora barbuta non appena dopo averla vista e osservata da vicino, i turisti, terminato il breve giro, con aria vaga, si avviano nuovamente verso l'ingresso dove l'autista li stava ad attendere. È passata poco più di mezz'ora. Le «donne collo lungo» restano invece dentro. Questo per loro, in effetti, non è il vecchio villaggio del Myanmar da cui si è scappati pagando sottobanco ai militari della frontiera. È il campo profughi di permanenza temporanea a cui si è state un tempo destinate e da cui non si può uscire né guardare fuori. Uno zoo in cui degli esseri umani pagano per vedere altri esseri umani, creduti diversi.