«Stupor mundi», Federico II e l'utopia del grande impero

MarioBernardi Guardi «Lo stupore del mondo» (Mondadori pag. 393) è Federico II Hohenstaufen. Così tedesco, con le sue radici normanne e sveve, ma anche così mediterraneo. È il Meridione, come ci racconta Cinzia Tani, il cuore del suo Impero. Puglia e Sicilia ai suoi occhi sono gioielli d'inestimabile valore. E lui le protegge, le sue "perle". Con un vigore indomabile, pronto a farsi spietatezza e crudeltà. Perché crede nella sua missione: costruire, in potenza e bellezza. Non ignora certo le arti della politica: sa essere duttile, all'occorrenza, di fronte a una Chiesa che lo vede come un pericoloso accentratore. In effetti, l'icona di Federico, già in vita, è quella di una debordante pienezza, tessuta di intelligenza e spregiudicatezza, vitalità e fascino carismatico, volontà e una curiosità intellettuale aperta a tutto, dunque anche, e inevitabilmente, alla sfida. Alla sua corte, Federico si circonda di uomini di cultura che provengono da tutto il mondo, non disdegnando certo i dotti musulmani, lui che ha trascorso l'infanzia giocando per i vicoli di Palermo con i bambini saraceni. Federico è un uomo di cultura: pensiero e azione si fondono mirabilmente in questo re che si diletta di filosofia, astronomia, astrologia, architettura, scienza della politica e della natura, alchimia e poesia. Per non parlare della falconeria... Insomma, è un genio. Cui s'accompagna, come sovente accade, la sregolatezza. Non è certo, infatti, un uomo che si appaghi di una sola donna, il sovrano svevo: un ben nutrito "harem" lo segue nei suoi spostamenti e non c'è regina che possa vincolarlo all'obbligo della fedeltà. E "sregolato" Federico lo è anche dal punto di vista religioso: lui, il cristianissimo "Vicarius Dei" e difensore in armi della fede, subisce la fascinazione dell'Islam, di certe dottrine gnostiche, dell'eredità pagana. E tutto questo lo inclina al sincretismo, agli itinerari eretici. Ma, nel bene e nel male (e "al di là del...") l'icona resta smagliante e basterebbe addentrarsi nella biografia di Ernst Kantorowicz per rendersene conto. Ma Kantorowicz, allievo dell'illuminato circolo di Stefan George, altra icona germanica, è un "approdo". E vale la pena, prima, di leggere questo romanzo di Cinzia Tani, in cui passo passo vengono raccontati i giorni e le opere del grande Federico, ma entro un ben articolato intreccio di vicende che altre vite raccontano con una prosa rapida e coinvolgente. Vite "estreme" e "fatali" come quella dell'Hohenstaufen nelle quale, a vario titolo, confluiscono? In qualche modo sì perché tutti i personaggi - Pietro, Matteo, Flora, Rashid, Marianna...- sono segnati da un impulso, da una vocazione che diventa slancio febbrile a misurarsi con la quotidianità e a superarne i confini, di ventura in ventura, fino al rogo finale. La "dismisura" federiciana, insomma, fa da stimolo al rivelarsi di native pulsioni, in un quadro di eventi abilmente disegnato. Sia pure con qualche sbavatura: non tanto i prevedibili effetti speciali quanto lo stile, a volte troppo corrivo nella tendenza a far parlare i protagonisti "come noi": ad esempio, stona decisamente il termine "romantico" in bocca a personaggi che vivono nella prima metà del Duecento...