Sarcastico e avventato. Benito segreto nel taccuino del ministro della Guerra

Nei cinque anni in cui fu alla guida del dicastero della guerra, due volte la settimana l'auto di rappresentanza con le insegne del Ministero varcava il portone di Palazzo Venezia, sede della Presidenza del Consiglio, sul lato della piazza dominata dall'Altare della Patria, a Roma. Un valletto prontamente si accostava alla vettura, affrettandosi ad aprire la porta e dal veicolo, con uno scatto repentino, scendeva il ministro della Guerra. Il generale Pietro Gazzera portava con sé una cartella scura. Saliva, quasi di corsa, la scalinata che conduce al piano nobile del palazzo romano. Poi, nell'anticamera dello studio di Mussolini, riordinava le idee, ripercorreva nella propria mente la scaletta dell'imminente incontro con il capo del Governo. Tra il settembre del 1929 e il luglio 1933 questa scena si ripetè innumerevoli volte. Percorso il non breve tratto che separava la scrivania di Mussolini dalla porta d'ingresso il generale si trovava di fronte il Duce che, quando era la lavoro, preferiva indossare uno stazzonato completo al posto dell'uniforme ufficiale. All'arrivo del visitatore Mussolini si toglieva gli occhiali. Non amava farsi vedere con le lenti da presbite e, in barba alle indicazioni di Starace che aveva disposto l'utilizzo del saluto romano, accoglieva spesso l'ospite con una più prosaica stretta di mano. Consumati i convenevoli di rito, il generale si sedeva. La scrivania di Mussolini colpiva l'ospite per la totale assenza di disordine. Incombeva sul colloquio il ticchettio di un orologio collocato in bella vista con il compito di sollecitare gli ospiti a essere brevi. Le udienze private duravano, in media, quindici minuti (...). Aperta la cartella, il ministro estraeva un foglio di carta di quelli che si usavano una volta per gli atti pubblici, uno di quelli dove si applicava la «marca da bollo». Sul foglio aveva segnato il tema e i problemi da sottoporre al Presidente del Consiglio dei Ministri. La scena si ripeteva (...): ma dopo qualche mese dall'inizio degli incontri Mussolini invitò il suo ministro a non prendere più appunti. Fu allora che cominciò a lasciarsi andare a giudizi e commenti che talvolta uscivano dall'ufficialità dei linguaggi di Governo e lambivano con il pettegolezzo i gerarchi, esprimevano lo sconforto per le difficoltà che il regime incontrava nella politica internazionale, traboccavano retorica sui destini dell'impero e sulle glorie del fascismo. Gazzera, uscito dai colloqui, si fermava nell'anticamera della sala del Mappamondo, riapriva la sua cartellina per annotare sui fogli di carta uso bollo quello che, di fronte al Duce, non aveva potuto fare. E se nell'anticamera sostava qualcun altro, allora scendeva nella sua auto di servizio e diceva al suo autista, il fedele Oreste, di non partire finché non avesse terminato di scrivere sul contenuto dell'udienza. Emerge da questi appunti, richiamati dal figlio Romano nel libro di memorie La rosa di Clarissa, il quadro di un Mussolini che alterna lucidità politica e giudizi sferzanti, ironia e assoluta mancanza di scrupoli, fiuto politico e cecità diplomatica.