Giuseppe Pennisi Il cinema è o non è un'arte? Questa domanda è preliminare a quella se debba fruire di finanziamenti pubblici come le altre arti.

Alladomanda ha risposto efficacemente il filosofo dell'estetica Rudolf Harnheim in un saggio (tradotto in italiano solo nel 1957): «il cinema assomiglia alla pittura, alla musica, alla letteratura ed alla danza in quanto è un mezzo che può, ma non deve necessariamente, essere usato per raggiungere risultanti artistici». Harnheim definisce con cura le caratteristiche che fanno sì che l'«illusione parziale» (fornita dal cinema) possa essere considerata espressione artistica. Dalle definizioni di un teorico di estetica alle loro applicazioni pratiche, il passo non è facile. Ciò è alla base delle polemiche che spesso hanno accompagnato, in passato, i giudizi di commissioni di «esperti» che hanno concesso finanziamenti pubblici a fondo perduto a film che non hanno retto che pochi giorni al confronto con le sale e che gli stessi critici cinematografici hanno ritenuto discutibili, ed a volte anche di pessima fattura sotto il profilo tecnico. Il Governo e il Parlamento in carica hanno risolto il problema tagliando la testa al toro: abolendo i contributi diretti a questo o quel film e sostituendoli con un credito d'imposta (con un massimale triennale di quanto può essere fruito dalla stessa impresa). È la soluzione ottimale? Da un lato è quella adottata ormai da gran parte dei Paesi dell'Ue; da un altro, elimina la discrezionalità dei «valutatori»; da un altro ancora, tiene conto della valutazione data dal mercato e da chi è pronto a rischiare i propri fondi in una produzione.