Arriva il nuovo cd «Working on a dream» Un inno alla speranza per l'America di Obama

Era il 2 novembre: mancavano 48 ore al voto, e sul palco del rally elettorale di Cleveland Springsteen aveva benedetto così la missione del candidato democratico, che lo ascoltava raggiante. I due si ritroveranno domani a Washington, due giorni prima dell'insediamento ufficiale alla Casa Bianca, per un concerto-evento al Lincoln Memorial con Bono, Shakira, Beyoncè, Stevie Wonder, Sheryl Crow, Will.I.am, Mary J. Blige e tutto l'establishment artistico che si è schierato al fianco del primo presidente nero. Bruce ne sarà la stella, come in una staffetta di speranze custodite e ritrovate per consegnarle a Barack: all'indomani dell'11 settembre 2001, l'autorevole rivista progressista "Rolling Stone" aveva chiesto ai lettori di indicare un "simbolo del Paese", e tutti avevano risposto che era lui, il Boss, l'eroe tenace che nel medioevo bushiano aveva chiamato i connazionali alla «rinascita» con quel capolavoro dolente di "The Rising", e che poi aveva accompagnato i soldati nella polvere e tra i demoni del deserto spirituale di una guerra sbagliata, intonando "Devils & Dust". Più oltre, aveva cercato il cuore nascosto della Grande Nazione scavando tra le fondamenta musicali con "The Seeger Sessions", infine si era avventurato in un estenuante ritorno verso casa, per scoprirla abitata da un leader prestigiatore e imbroglione, intento a fregare il mondo con i suoi trucchi. Quel viaggio nella disillusione americana, esauritosi tra i solchi di "Magic", si rovescia ora in una festa di nuove aspettative, in un rimboccarsi le maniche per credere che, davvero, si può fare. È questo, "Working on a dream": siamo qualche passo oltre l'incrocio tra la fine e un nuovo inizio, in quell'esaltata atmosfera dove vedi ancora le rovine, ma sai che la ricostruzione motiverà i giorni che verranno. Un album (uscirà venerdì, anche in versione cd più dvd) che si temeva interlocutorio, frettoloso, un riempitivo fra un tour e l'altro (Bruce tornerà in Italia a luglio per tre concerti, di cui uno a Roma). Invece è una raccolta ottimista, vibrante, illuminata da un suono pieno di reminiscenze anni Sessanta, con quel tipo di leggerezza che al tempo stesso garantiva solidità d'impianto e inventiva, come avevano i Byrds o il pop inglese d'epoca. Le registrazioni erano iniziate alla fine di "Magic", ma a Springsteen e al produttore Brendan O' Brien era parso chiaro si trattasse di tutt'altra cosa. Le canzoni, a partire dal rock metallico di "What love can do", erano sgorgate con naturalezza in poche settimane: molte, fra queste 12 (più la splendida, elegiaca "The Wrestler", vincitrice del Golden Globe per l'omonimo film con Mickey Rourke) sono all'altezza del repertorio migliore del Nostro. Come l'ambiziosa "Outlaw Pete", una storia western che pare scippata alla penna di Cormac McCarthy, o il blues luciferino di "Good Eye". Come, ancora, l'effervescente "Queen of the supermarket" e quella meravigliosa serenata in tempo medio che è "Life itself". Inusuale, ma non troppo, il country di "Tomorrow never knows", mentre l'energia di "My lucky day" e "Kingdom of days" è benzina verde per il sogno obamiano, quello fischiettato nel primo singolo "Working on a dream". Ma anche tra le pieghe della musica più gioiosa si infiltra la malinconia: è quella che Bruce offre come omaggio postumo all'amico di sempre della E Street Band, quel Danny Federici che in questo disco ha suonato per l'ultima volta, prima che il 17 aprile scorso la malattia fermasse per sempre le sue dita sulle tastiere. Qui, nello struggente addio di "The last carnival", sugli strumenti del padre si adopera il figlio Jason. Bruce canta la sua elegia, immaginandosi come un artista di circo che cerca il collega, fra leoni ruggenti, trapezi vuoti e coltelli in volo, per uno show che andrà avanti, perché i sogni dei vivi sono stati costruiti anche da chi si è allontanato fra le nuvole.