La vera crisi non è questa La patirono i nostri nonni

Tra le pagine di storia vissuta da tanti italiani, direttamente e indirettamente, c'è quella della Grande Ritirata di Russia. A quell'epopea sono dedicati i racconti di grandi scrittori, come "Il sergente nella neve" di Mario Rigoni Stern, o di Primo Levi, di cui riportiamo una celebre durissima poesia, e che forse non sarebbe inutile ritirare fuori dagli scaffali e proporre ai nostri ragazzi. Qui vogliamo dare voce anche ai testimoni. Tra la fine di dicembre 1942 e il febbraio 1943 più di 200.000 soldati italiani furono coinvolti in una delle più catastrofiche ritirate militari della storia. Il corpo d'armata italiano era partito per la Russia nel 1941 al seguito di quello tedesco, ma dopo un anno la situazione cambiò radicalmente con l'arrivo del terribile inverno russo. Le truppe italiane erano del tutto impreparate alle temperature polari (-43°), e soprattutto al poderoso attacco delle armate sovietiche. L'unica salvezza era ritirarsi in fretta per uscire al più presto dall'accerchiamento. Alla fine le perdite furono più del 50 per cento degli effettivi. Umberto Isernia, ultimo sopravvissuto, a quel tempo giovane tenente, oggi 92 anni compiuti, ricorda ancora e racconta. «Quando sono arrivato a casa la prima cosa che ho fatto è stato baciare per terra, per essere riuscito a tornare. Partii per la Russia che ero un ufficiale di complemento dell'81° Reggimento di Fanteria e non sapevo niente della guerra. Quando siamo arrivati a destinazione era già inverno e fummo dislocati in prima linea, sull'ansa del Don. La trincea era profonda un paio di metri e alloggiavamo in quindici in piccolo rifugio sotterraneo. La neve era alta ed era già molto freddo; il vino era in lastroni ghiacciati che noi dovevamo fare a pezzi con la baionetta». Continua Isernia: «Il primo attacco dei russi cominciò con una scarica furibonda di artiglieria, quindi passarono il fiume ghiacciato in massa. Non so dire se la marcia sia iniziata di giorno o di notte, non si capiva niente; tutto accadde in fretta. Lasciai la mia cassetta con il vestiario e nello zaino misi soltanto bombe a mano e munizioni, sono rimasto con gli stessi vestiti per tutta la ritirata. In breve non c'erano più ufficiali superiori ed io mi sono ritrovato a fare il comandante di una compagnia. Guidavo gruppi di soldati sbandati che via via si aggregavano e sentivo che il mio compito era di condurli in salvo. Camminavamo seguendo una bussola che avevo al polso. La strada non si vedeva quasi più e la temperatura era sempre intorno ai 43 gradi sotto zero. Non eravamo equipaggiati e ci arrangiavamo con quello che avevamo. Molti ai piedi avevano solo degli stracci. Abbiamo sempre marciato, a piedi, quasi fino a Odessa. Ma prima abbiamo dovuto affrontare diversi scontri per sfuggire l'accerchiamento». Il racconto prosegue: «Marciavamo di giorno e la notte sostavamo nelle case dei contadini. I civili russi erano straordinari. Nei villaggi si affacciavano alle porte e, capito che eravamo italiani, ci facevano entrare e ci davano patate da mangiare e sacchetti di semi di girasole. Mangiavamo dei corvi, quando ne trovavamo e per bere usavamo la neve. Se trovavamo una gallina la mangiavamo con tutte le penne, tanta era la fame. Se non trovavamo una casa dormivamo per terra, sulla neve, uno addosso all'altro, per tenerci caldo. Chi si fermava era perduto. Moltissimi morivano congelati. Il freddo era insopportabile, entrava nelle ossa e le faceva dure come il legno e doloranti, finchè non le potevi più muovere. Eravamo pieni di pidocchi che ci camminavano addosso. Ma anche in quella tragedia i soldati italiani si dimostrarono straordinari, aiutandosi sempre l'un l'altro. Con noi c'era anche un sacerdote che cercava sempre di darci coraggio». «La ritirata complessivamente è durata circa un mese e mezzo. Un mese e mezzo di marcia disperata. Avevo 26 anni e da allora non sono più tornato in Russia, volevo dimenticare. Perché i miei ricordi maggiori sono i morti, tanti morti. Oggi, se ripenso alla Russia, la prima immagine che mi viene in mente è la neve. E quei ragazzi che si buttavano a terra, sfiniti. Io volevo fermarmi, ma non potevo, dovevo portare avanti gli altri che si erano affidati a me. Altrimenti ci avrebbero ammazzati tutti». «Per anni non ho avuto la forza di raccontare. Era troppo doloroso e mi veniva da piangere. Pensare a tutti quei ragazzi che si lasciavano cadere sulla neve a morire. "Signor tenente non ce la faccio più" dicevano. Io rispondevo "alzati, dai che ce la facciamo", ma loro rassegnati dicevano "no, vada, vada avanti lei". E io che potevo fare? Che potevo fare?».