Un inno alla maternità nell'inferno di Sarajevo

È la speranza che attraversa «Venuto al mondo» (Mondadori, pag. 529) ultimo romanzo di Margaret Mazzantini che sette anni dopo «Non ti muovere» ci propone un'altra donna, con la sua storia d'amore appassionata, imperfetta come gli amori veri, ma anche con la storia di una maternità cercata, negata, risarcita. Un romanzo dove però è protagonista anche la Storia, quella con la «s» maiuscola, che rende l'opera trascinante e di forte impegno etico seppur intricata e spiazzante come un thriller. Una mattina Gemma lascia la sua quotidianità e sale su un aereo, trascinandosi dietro il figlio sedicenne Pietro. Destinazione Sarajevo, città-confine tra Occidente e Oriente, ancora con i segni di un recente passato. Ad attenderla all'aeroporto, Gojko, poeta bosniaco, amico fratello, amore mancato, che ai tempi festosi delle Olimpiadi invernali del 1984 fece conoscere a Gemma l'amore della sua vita, Diego, il fotografo di pozzanghere, scapestrato bohémien. Con lui Gemma vuole essere madre, ma in questa rincorsa quasi maniacale, che scavalca ostacoli e viola convenzioni e leggi, finisce per perdersi.... Un romanzo inno alla maternità? «Non solo - racconta Margaret Mazzantini - È un viaggio nell'anima e nel ventre della donna. Una storia di esseri umani, di occasioni mancate, di colpi di coda. Un viaggio avventuroso e d'iniziazione di tutti i protagonisti». Che strappa la lacrima... «Vero, è commovente, ma è un libro illuminato dalla speranza. Del resto è costellato dalla presenza di figli, di bambini...e loro sono la speranza perché noi adulti abbiamo già sperato. Ed è illuminato dalla fiamma olimpica, una fiamma sempre accesa che passa di mano in mano malgrado la guerra». E illumina amori e incontri «Grandi amori e incontri importanti in un romanzo corposo, che racconta 20 anni di storia ma che, miracolo della letteratura, si legge con grande voglia, forse perché c'è grande empatia, forza, struggimento e tenacia». Ma perché la guerra a Sarajevo? «Quella guerra è una metafora, tutte le guerre si assomigliano, la guerra è un imbuto nero che strazia i destini e cambia le carte in tavola, che costringe le persone ad estrarre l'osso di se stessi, che fa ritrovare se stessi». Una catarsi? «Attraverso il male della storia può nascere un nuovo principio e, infatti, nasce un figlio del mondo, non solo biologico, che nel libro ha la faccia di un sedicenne, con le gambe lunghe e ancora sgraziate, l'ombrosità e gli slanci di un ragazzo di oggi chiamato Pietro». Lo stesso filo conduttore per una storia intima e una grande storia.. «Io penso che uno scrittore debba scrivere della sua epoca, e io almeno faccio quello. Scrivo i miei tormenti, i crucci, di cosa mi commuove nell'oggi, nel mondo che mi circorda, con cui mi mischio, mi sporco continuamente...» La sua ispirazione è la quotidianità? «Esatto, io sono una persona normale, che pensa alla famiglia, ai quattro figli, una donna che combatte ogni giorno e che quando scrive getta lo sguardo sulla vita, sulle persone ma ad altezza umana. Cerco di rendere lineare il caos nel nero dell'inchiostro. Per questo il lbro è doloroso ma pieno di luce e di energia. È la mia caratteristica. Nella scrittura metto una grande energia, come un rabdomante che cerca nel buio ma facendomi trascinare dalla vicenda». Ma perché proprio Sarajevo? «Perché è una città martire che ha subito un grande assedio della storia, una città bella, aperta, vibrante, in cui tutte le etnie convivevano, improvvisamente assediata da cannoni e cecchini. Una vicenda vergognosa dal punto di vista politico con l'Europa che l'ha ignorata malgrado tutti sapessero tutto... E poi mi piaceva come metafora della guerra, città messa sotto assedio come tutti i personaggi sono messi sotto assedio psicologico, come il ventre di una balena nera che risucchia anche i nostri sentimenti normali. Una guerra però che apre le porte ad un modo di sentire la vita in modo più profondo, lacerato e autentico».