Joaquin Navarro Valls: «La Cuba di Raul non cambia»

Castro che succede a Castro, una continuità che è diventata un classico nei regimi segnati magari dal "carisma rivoluzionario" di un leader per trasformarsi, volendo perpetuarsi, in una dittatura, impermeabile ai valori della libertà, cominciando da quella religiosa. Navarro ha avuto modo di incontrare tre volte Fidel, spianando la strada allo storico viaggio di papa Wojtyla. Conosce da vicino le liturgie del potere castrista, ovvero pugno di ferro in guanto di velluto. Ed ha seguito con interesse il viaggio del Segretario di Stato della Santa Sede, il cardinale Tarcisio Bertone. «La presenza del cardinale Bertone nei giorni scorsi non è passata inosservata, perchè è stata il segno della presenza pubblica della Chiesa cattolica nel momento del passaggio. Certo - aggiunge Navarro - si respira sempre un clima di libertà vigilata, ma ancora una volta il regime ha dovuto lasciare uno spazio sociale alla Chiesa, permettendo al premier del papa di muoversi, di celebrare messa, di inaugurare un monumento a Giovanni Paolo II, di riaffermare il principio intangibile della libertà religiosa». Incontriamo Navarro Valls in un quartiere elegante di Roma. Dalle questioni di politica internazionale alle questioni, per così dire, private, il passo è breve. Cosa mai farà il giornalista più famoso del mondo dopo l'esperienza unica e irripetibile d'aver accompagnato e comunicato per vent'anni anni un papa come Giovanni Paolo II ? «A volte il peso dei ricordi è tale che risulta difficile da sopportare. Essi si insinuano nelle fibre di una persona, non più sotto i riflettori di un palcoscenico internazionale, fino a svuotare di senso il futuro». Non è il caso del dottor Joaquin Navarro-Valls, direttore della Sala Stampa della Santa Sede dal 1984 al 2006, medico e psichiatra e giornalista, numerario dell'Opus Dei, maestro riconosciuto di comunicazione. Ha fatto un passo indietro rispetto alle luci della ribalta, ma la sua è una conversazione avvolgente. È intatto il fascino sapiente dell'hidalgo spagnolo (a chissà quante donne ha fatto girar la testa…) e poi c'è, intatta quella capacità comunicativa che gli ha permesso di trasformare il ferro vecchio della Sala Stampa Vaticana in una perfetta macchina mediatica. Fra privato e pubblico, professionalità e seduzione, energia intellettuale e diplomazia. La matassa aggrovigliata dei ricordi tenaci, portati con un pizzico di dolce melanconia e di leggerezza. Dopo la Sala Stampa della Santa Sede è ritornato alle fonti. «Si è così. Sono tornato alla medicina e sono diventato presidente dell'Advisory Board dell'università Campus Bio Medico di Roma». Un lavoro suggestivo. «L'integrazione di base fra i risultati delle scienze positive e la riflessione antropologica è l'idea che mi ha trascinato in questa nuova attività professionale. Vede, sappiamo tutto sull'essere umano, sui processi biochimici e la biomeccanica del suo organismo, ma non sappiamo ancora "chi" è l'uomo». Non mi dica che il Navarro di oggi è solo medico. «No, sono un medico prestato al giornalismo. L'attività pubblicistica mi è rimasta dentro, quasi come una cicatrice dell'anima. Quindi scrivo per qualche giornale italiano e straniero. Ma è l'attività accademica che mi attrae e mi assorbe maggiormente». Si occupa anche di cinema, della "settima musa". «Sono nel Comitato Strategico della casa cinematografica "Lux Vide" di Ettore Bernabei. È un lavoro per sviluppare temi che poi possono essere tradotti in immagini. Seguiamo due criteri: quello della qualità tecnica e quello dell'offerta valoriale ad una cultura contemporanea che sembra aver perso il gusto della ricerca, che non ha passione per la verità». Torniamo a Giovanni Paolo II. Per lei i ricordi devono essere una lama acuminata. «Lo sono perché non si può rimanere indifferenti di fronte ad una persona come Giovanni Paolo II. Accanto a questo papa sono stato per venti anni». Come comunicava papa Wojtyla? «Si è insistito molto su quella che è stata considerata la grande capacità gestuale di papa Giovanni Paolo II. Sulla sua fisicità. Io non sono del tutto d'accordo. Il fascino che ha esercitato sull'opinione pubblica mondiale, dentro e fuori dall'ambito cristiano, dipendeva da due cose: quello che diceva e come lo diceva. Ecco la ricchezza straordinaria dei valori umani e cristiani che come papa indicava ai suoi contemporanei ed ecco il modo, altrettanto straordinario, con cui comunicava questi valori, i suoi convincimenti». Una comunicazione è vera quando... «Quando si ha qualcosa da dire. Se non hai nulla da comunicare il tuo dire diventa una ripetizione di formule. Aggiungerei che occorre elaborare una semantica per comunicare così da essere capiti secondo il mezzo che di volta in volta viene usato. Un conto è il mezzo televisivo, la stampa scritta, un libro o internet. Da una parte, in papa Wojtyla, c'era la stupefacente ricchezza di concetti, idee, di valori che proponeva, dall'altra la genialità nel proporli». Lei vuole dirmi che il suo compito di comunicatore, con un papa così, è stato tutto in discesa. «Non ho mai dovuto fare l'editing del papa. Semmai il problema del mio ufficio era di non deludere le enormi attese che la parole e la gestualità del papa suscitavano. Questo era già una grande sfida. Era una questione di sintonia». E lei l'aveva. Il momento più critico o drammatico? «Gli ultimi giorni di vita del pontefice. Oppure il papa a Cuba, a Sarajevo, in Libano. Il momento forse più critico dal punto di vista della comunicazione quando il papa, di fronte alla pulizia etnica nei Balcani, inviò una lettera umanissima e dolente, ma così carica di pathos, alle donne di quella regione crocifissa, cristiane ortodosse o cattoliche o musulmane, costrette ad abortire dopo essere state violentate. Il messaggio del pontefice fu totalmente frainteso. Come si poteva aggiungere crudeltà a crudeltà e chiedere a donne ferite e calpestate di sottomettersi ancora ad un'altra violenza?». Già, come si poteva... «Lei ricorderà che il papa non voleva questo. Nelle sue parole c'era esattamente il contrario. Giovanni Paolo II chiedeva che attorno a queste donne si potesse creare un clima diverso perché la loro scelta fosse libera e non condizionata dal veleno della divisione. Era un appello alla libertà, un inno doloroso alla vita, un atto di amore verso quelle donne, non una nuova forma di oppressione». Cosa è cambiato nella sua vita? Anzi: come è cambiato Navarro Valls? «Molto anche se il mio modo di pensare, la mia fede, il relazionarmi agli altri sono rimasti gli stessi. Ora ho riscoperto la dimensione privata della mia esistenza, l'"otium", come dicevano i classici, nel senso dinamico di tempo da vivere con cose ricche di senso. Attività accademica, questioni scientifiche, libri di antropologia culturale e filosofica. La questione fondante della verità sull'uomo mi appassiona». Un papa da vedere, Giovanni Paolo II, e un papa da sentire, Benedetto XVI. Lei si ritrova in queste semplificazioni giornalistiche, in questi clichées? «La pastorale di Benedetto XVI è il prototipo della pastorale dell'intelligenza. Ma papa Ratzinger ha anche compiuto gesti. Quel tremendo silenzio ad Auschwitz è di una eloquenza impressionante. "Un papa tedesco non poteva non venire qui", ha detto. Gesti e immagini. Lei sa bene che il pontificato di Giovanni Paolo II può essere ricomposto interamente in immagini televisive e fotografiche. In entrambi i papi c'è qualcosa di incomprimibile, una sporgenza di assoluto». Forse si scivola su terreni più infidi. Lei è intervenuto sulla polemica che ha accompagnato la decisione del papa di non andare alla Sapienza. Sullo sfondo la contesa fra laici e cattolici, il laicismo e il suo contrario. Il "Papa day". È un quadro ingarbugliato. «È ingarbugliato perché sono ambigui i concetti dai quali si parte. Lo Stato laico è una grande conquista, un ambito di libertà dove tutti, credenti e non, devono potersi esprimere. Ciò che ci deve interessare è il contenuto di verità di una opinione, non lo schieramento della persona che la esprime. Laico, cattolico per me è uguale. Queste classificazioni sono sterili e rendono sterile il pensiero di chi rivendica un'appartenenza. Voglio dire che bisogna imparare a pensare al di fuori delle ideologie. È un esercizio di onestà intellettuale e di rigore morale». A quando un libro firmato da Navarro Valls ? La sua esperienza è incandescente. «In effetti, lo considero quasi un obbligo morale mettere per iscritto questi ventidue anni a servizio di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Raccontare i percorsi decisionali, le illuminazioni, le scelte raramente frutto di improvvisazioni, la gestazione di passi che poi hanno lasciato un'impronta nella storia. È una sfida. Il libro l'ho iniziato, poi mi sono fermato. Mi occorreranno due anni per portarlo a termine». "Navarro racconta Giovanni Paolo II", potrebbe essere un buon titolo. «Toglierei il nome Navarro. Meglio: "I miei anni con due papi". Quello che conta non è il testimone, ma quello di cui si è testimoni. I profeti non sono mai di se stessi, bensì di qualcun altro». Si vive di tv. Oserei dire che tanti vorrebbero vivere "in tv", magari in uno studio televisivo. È il vero status symbol, lo specchio di ogni brama. Lontano dalla tv si cade, spesso, in uno stato di prostrazione. Lei? «Non ho avuto crolli psicologi. Anzi. Il passaggio l'ho vissuto con grande sollievo, quasi come una forma di liberazione. Forse anche perché lo avevo chiesto molte volte. Il problema di ogni comunicatore è di avere qualcosa da dire. Se sei a corto di idee e argomenti è inutile cercare visibilità. Perdi il tuo tempo e lo fai perdere agli altri». Saggio, specie per chi crede. È la sapienza di chi sa guardare lontano. «Si tratta di vivere tutte le fasi della vita in pienezza. Di non rimanere abbagliati dai dati truccati di una cultura che contrabbanda la visibilità con l'essere». Così non si vive più, si muore senza aver vissuto veramente. La sua fama e la sua popolarità sono comunque immense. Lei è un'icona, un modello. Difficile eclissarsi. «L'annullamento della vita privata stanca molto. Una volta Giovanni Paolo II, vedendomi stanchissimo, mi consigliò di staccare per qualche giorno. Sono andato in Abruzzo per riprendermi. Ero solo con me stesso a camminare e quella solitudine era una delizia, una formidabile medicina. Mi perdo con la macchina in una stradina di montagna. Ad un contadino domando: "Guardi, mi può dire se vado bene per il pianoro che sto cercando?". "Sì, continui per due chilometri, poi a destra, la prima a sinistra, due dossi e sta nel pianoro. Senta, ma il papa come sta?". Ho sorriso, nemmeno lì si poteva sfuggire a quello che si è, a come si appare».