Fidel va in pensione ma per Cuba non è una svolta

Ma, il giorno dopo l'annuncio, viene da chiedersi se ci troviamo di fronte a una vera svolta, o soltanto a un passaggio reso necessario dalla salute del Lider Maximo, senza profonde implicazioni politiche. Almeno i dissidenti, che vivano a Cuba o in esilio, sembrano optare per questa seconda ipotesi. Elizardo Sanchez, per esempio, sostiene che la rinuncia di Castro alla presidenza non migliora né la situazione (sempre catastrofica) dei diritti umani, né la realtà di un Paese a partito unico che ha cancellato la parola democrazia dal suo vocabolario, né riempirà la pancia della gente. Dello stesso parere è il Dipartimento di Stato, dove si preferisce attendere l'evoluzione della situazione prima di prendere posizione. Il primo test lo avremo questa domenica, quando i trentun membri del Consiglio di Stato procederanno alla nomina del successore di Fidel alla presidenza della repubblica. Se, come è nelle previsioni generali, il prescelto sarà il fratello Raul, che ormai ne svolge le funzioni da un anno e mezzo, non è il caso di attendersi grandi cambiamenti: egli continuerà nella sua politica improntata a un certo pragmatismo, dando spazio agli investimenti stranieri, tollerando qualche critica attraverso i canali autorizzati e denunciando certe inefficienze del regime, ma senza liberare un solo prigioniero politico e senza compiere alcun gesto distensivo nei confronti dei dissidenti. Se invece, un po' a sorpresa, dovesse essere elevato alla massima carica un uomo più giovane, potrebbe essere un segnale che qualcosa si sta muovendo: si parla del presidente dell'Assemblea nazionale Ricardo Alarcon o del ministro degli esteri Felipe Perez Roque, ma si tratta di voci difficilmente controllabili. All'Avana neppure l'uomo della strada si aspetta che l'abbandono di Fidel modifichi di molto - almeno a breve termine - la situazione. Più che in un'evoluzione dell'ideologia la gente spera, se mai, in un miglioramento delle proprie precarie condizioni economiche, in un allentamento dell'oppressione poliziesca, forse in una cauta apertura delle frontiere. Ora che anche alcune delle conquiste della rivoluzione, come la pubblica istruzione e il servizio sanitario nazionale, cominciano a mostrare vistose crepe, neppure il nazionalismo che, per lungo tempo, aveva fatto da supporto al regime ha più molta presa. Tra le persone di mezza età c'è soprattutto rassegnazione, tra i giovani alberga maggiore speranza: ma forse più in una evoluzione di tipo cinese che in una perestrojka alla russa. Una certa influenza potrebbe esercitarla la Chiesa, che - come abbiamo visto anche in occasione della visita di Giovanni Paolo II - non ha mai rotto con il regime, ha mantenuto una certa presa sulla popolazione e potrebbe approfittare del ritiro di Fidel per estenderla. Gli Usa hanno rinviato ogni decisione circa la sospensione dell'embargo a quando L'Avana avvierà almeno un processo di liberalizzazione. L'Europa ha chiesto a sua volta di ricevere dei segnali positivi, soprattutto in materia di diritti umani, prima di prendere qualsiasi iniziativa. Ma Castro è uno dei pochi dittatori ad essersi ritirato di propria iniziativa. Rimane da vedere se, al di là dei proclami ufficiali, egli si sia reso conto delle macerie che lascia in eredità ai suoi successori. Alla fine, potrebbe fare la fine di Mao, idolatrato per anni dalle sinistre di tutto il mondo e adesso pudicamente relegato nel dimenticatoio.