La recensione di Gian Luigi Rondi

Cinquant’annifa un western di culto, "Quel treno per Yuma", diretto da Delmer Daves con Glenn Ford e Van Heflin. Oggi il suo rifacimento, sempre sulla scorta di quel racconto di Elmore Leonard che, agli impeti e al calore dell’azione, sapeva accompagnare delle indagini psicologiche molto fini. Uno scontro, perciò, che diventa un confronto. Da una parte, un modesto contadino dell’Arizona, Dan Evans, reduce dalla Guerra Civile, che stenta a tirare avanti, con moglie e figli, non solo per la siccità, il gelo e la mancanza di denaro, ma anche per la minaccia di un esproprio della sua poca terra perché la dovrà attraversare di lì a poco la ferrovia. Dall’altra, un banditaccio da strada, terrore della regione, Ben Wade, su cui pesano un’infinità di taglie. Per un gesto incauto, però, nonostante l’immediata reazione della sua banda, lo arrestano e adesso, da lì, dovrà essere scortato fino a un treno che lo porterà a Yuma dove, di sicuro, l’attende l’impiccagione. Però è un personaggio pericoloso, i suoi, armati fino ai denti, sono pronti a liberarlo ed occorre adesso trovare qualcuno che si incarichi di farsene carico, naturalmente pagato. Il contadino, sempre a corto di denaro, si fa avanti e i due, con una piccola scorta, cominciano quel viaggio insieme. Attorno mille rischi, non solo i terribili compagni del bandito ma, a un certo punto, perfino gli Apaches. A poco a poco, però, fra i due uomini nasce qualcosa che li avvicina, capendosi e comprendendosi l’un l’altro. Il finale, tirando le somme di quei due caratteri, sarà anche più drammatico (e commovente) che non nell’altro film. Ci ha rappresentato sia lo scontro sia l’incontro fra i due un regista, James Mangold, apprezzato, fra i suoi tanti film, anche per il recente «Quando l’amore brucia l’anima». Al cinema western ha lasciato spazi addirittura travolgenti, assalti alla diligenza, sparatorie, paesini spauriti fra saloons e case di legno. All’intreccio psicologico, però, ha dedicato attenzioni altrettanto valide, pur senza mai concedersi vere soste. Con un disegno dei caratteri, anche per altri personaggi di contorno, in più momenti sfumato e sottile. Grazie anche, ovviamente, a due interpreti di eccezione: soprattutto Russell Crowe nei panni prima solo truci del fuorilegge, presto però affidato a una gamma di sentimenti che, dopo sprazzi quasi di sarcasmo, raggiungono una umanità convinta e sincera. Di fronte a lui, più dimesso, anche perché così esigeva il personaggio, Christian Bale. Il giusto equilibrio tra fragilità e, alla fine, ferme decisioni.