Locarno celebra l'arte del narrare di Sokurov

Una, tedesca, «prigionieri», la firma un ex documentarista, Iain Dilthey, che, quasi programmaticamente, ha inteso trattare i suoi due personaggi principali unicamente come se li documentasse dal di fuori. Senza commenti d'autore. Si comincia con Irene, una giovane insegnante di biologia. Fa una vita solitaria, l'unico suo svago è cantare in un coro. Le sue finestre si affacciano su una prigione e lei, osservandola con un binocolo, si sofferma sulla figura di un detenuto cui non esita a scrivere. Una sera bussano alla sua porta, apre, c'è il detenuto appena evaso che, ovviamente, viene a rifugiarsi da lei. Una convivenza non facile, però. Prima l'evaso brutalizza la donna, la lega, la imbavaglia, poi quel rapporto prende una piega diversa. I due non si dicono quasi nulla, ma Irene finisce a tal segno per legarsi all'intruso da arrivare non solo al sesso ma al punto da sposare fino in fondo la sua causa. Così quando un'amica, ignara della situazione, verrà a trovarla, accetterà che l'altro la faccia prigioniera, organizzando poi una fuga nel corso della quale, per non avere ostacoli, arriverà ad uccidere lei stessa l'amica presa in ostaggio... Appunto quasi senza dialoghi. A commento di quel continuo silenzio, solo i gesti dei due e il progressivo avvicinarsi, anche sessualmente, della donna all'uomo. Con ritmi lentissimi: fino a risolvere molti gesti e molte conclusioni addirittura in tempo reale. E con poche luci. Sia per quei personaggi dati solo attraverso i loro movimenti e le loro reazioni esteriori, sia per il rifiuto di fornire spiegazioni narrative a queste reazioni che finiscono per rilevare pochissima logica: con un abbozzo superficiale delle psicologie. Specie alla fine, quando la protagonista uccide l'amica senza motivazioni. Un documento-documentario anche nel film dell'esordiente cubano Jorge Luis Sánchez, «El Benny» che ha, almeno, la giustificazione di esporre la vita di uno dei maggiori musicisti cubani del XX Secolo, Bartolomé Maximiliano Moré Benitez, ricreato come dal vivo da un interprete di vaglia, Renny Arozarena, che riesce a far percorrere al suo personaggio tutta quella serie di eventi che dovevano condurlo, pur non essendo mai stato in grado di leggere la musica, a diventare l'idolo non solo dei cubani ma, oltre i confini di molti latino-americani nel corso, pur breve, di una vita bruciata a soli 43 anni, ma senza molto senso del cinema. Moltissimo senso, invece nel film apertamente documentario e fuori concorso, «Elegia della vita», con cui Aleksandr Sokurov, il grande regista russo, ci ha raccontato la vita di una celebre coppia di musicisti, Matislav Rostropviach e sua moglie Galina Vishevkaia. L'occasione, il Pardo d'onore. Per celebrare la sua carriera.