Era figlio di una commerciante di carbone Studiò dai preti ma leggeva solo Marx e Lenin

S.della Misericordia, in via dei Penitenzieri, e infine, per la maturità, i Gesuiti dell'Istituto Massimo. Lui, Elio, era un ribelle nato: leggeva Marx e Lenin quando i suoi coetanei si trastullavano con la «Scala d'Oro» della Utet; non si piegò mai, neppure sotto i cazzottoni di Fratel Domenico da Vimercate, ex pugile specializzatosi, poi, da prefetto di disciplina, nella cristiana rieducazione dei giovani più riottosi; irriducibile anche da regista, come ricorda ancor oggi Francesco Merli, suo executive producer ai tempi di «Un tranquillo posto di campagna». Quando dico i "suoi genitori", sì, di Elio Petri, intendo sua madre, perché sul padre, un sognatore perdigiorno da Elio riesumato con insolita tenerezza nei «Giorni contati», c'era da fare poco affidamento. La mamma, invece, me la ricordo così: un donnone grasso dal cuore gentile, sempre costretta in un grembiule nero per via del carbone che in quegli anni di guerra vendeva nello scantinato-emporio di via Barletta, al Trionfale. È lì che la famiglia Petri teneva casa e bottega. Compagni di banco per caso, divenimmo presto amici, non so perché. Mi lusinga pensare, per affinità elettive, ma ritengo, più seriamente, per sua scelta. Venuto una volta in casa mia (non lontana dalla sua, in Prati), conosciuta mia nonna e il suo ricco tè-merenda, non se ne staccò più. Per cinque anni fummo culo e camicia. Dico questo per sottolineare la difficoltà che ora incontro a parlare, ricordando, di un genio che ho visto tanto da vicino. Perché - ne dicano quel che vogliono i suoi detrattori - Elio Petri era un genio. La riprova è nell'amicizia intellettuale che legò quel ragazzotto grasso e lentigginoso alla sofisticata settantenne; il futuro militante comunista alla fervente terziaria carmelitana. Perché tra Elio e nonna Corinna fu amore a prima vista. Lei, che misurava gli umani col metro dell'intelligenza, gli domandò: «Dimmi che cosa leggi». «Non glielo dico». «Perché?». «Non voglio perdere le sue buone merende». Il sodalizio era nato. Stavano per ore, in quei pomeriggi del '42-'45, a discutere di narrativa dell'Ottocento. Ricordo che la nonna, che stravedeva per Flaubert, definì una volta Dostoevskij, certo più vicino ai sentimenti del mio amico, «scrittore limitato dall'isteria». Elio ingoiò, chinando il testone. E fu, ancora una volta, immagino, per far salve quelle famose merende. Eravamo ormai prossimi alla maturità, quando Elio arrivò con un pacchetto-regalo per mia nonna. Deposto il ricamo, lei prese a scartarlo con infantile impazienza, chiedendogli che cosa fosse. Ed Elio: «Oh, niente, un libretto. "La sacra famiglia" di Karl Marx. Non quella che pensa lei, ma le piacerà comunque». Stavolta, fu nonna Corinna a dover incassare. Passò del tempo, molte merende, poi, dopo che Elio era uscito di casa, la nonna, sollevato lo sguardo dal suo eterno "piccolo punto", mi fece, con aria assai convinta: «Tra i tuoi compagni di scuola, quel cocciaretto lì, è quello che ha più testa». Nel lessico della nonna, cocciaretto stava per "figlio della donna che vende i cocci". La nonna non era una snob, ma amava chiamare uomini e cose col loro nome. Non avrebbe mai assimilato l'odierno linguaggio "politicamente corretto". E raramente sbagliava. Ripensai a quelle sue parole nell'estate del 1970, quando mi giunse notizia che «Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto» aveva vinto l'Oscar come miglior film straniero. Avevano vinto tutti: Elio, che non aveva mai fatto mistero del suo amore per il cinema di Hollywood (e francese), non certo per quello sovietico; gli americani, che l'avevano premiato sottintendendo: «E ora torna pure a gridare: 'Yankee go home»; e la nonna, soprattutto, la nonna che, dalla tomba, avrà sorriso alla sua indimenticabile maniera. In quell'estate in cui «Indagine» vinse, Petri ed io avevamo interrotto il nostro sodalizio da tempo. A dividerci erano state, come sempre le circosta