L'intellettuale dei diseredati

Sul personaggio pubblico, il regista, il poeta, l'uomo si è detto e scritto tutto e il contrario di tutto. Azzardiamo a dire anche la nostra? In lui, un temperamento lirico in cerca del sublime (la rissa di «Accattone» con la «Passione secondo Matteo» di Bach in sottofondo) conviveva con un'ideologia passatista e una morale detestabile. Eppure, nel rileggere i suoi interventi e le sue polemiche - in «Descrizioni di descrizioni», «Passione e ideologia», «Scritti corsari» e negli scritti dispersi - si vede con quanta intensità profetica, almeno in certi casi, abbia affondato il coltello nella piaga. Il punto di partenza è che Pasolini amava realmente i poveri: quel mondo pre e sottoproletario che, retorica e folklore a parte, non ha mai avuto molto fortuna nella sussiegosa intellighenzia italiana. Ma proprio perché reale, il suo amore era esclusivo e fanatico. Tipico un articolo sui «Promessi sposi» del 1974 in cui, dopo aver esaltato la semplicità e la freschezza di Renzo, accusa Manzoni di averlo trasformato alla fine del romanzo in ripugnante padroncino lumbard. A quel punto anche Pasolini cominciava a odiare ciò che aveva amato, con un'intensità pari alla sua delusione. Come osava Renzo diventare un possidente, un protocapitalista, insomma un mostro? Come osava rinnegare il paradiso delle campagne, in cui l'uomo suda e fatica accanto al pio bove? Per restare fedele se stesso, Renzo avrebbe dovuto accettare l'esistenza cavernicola dei contadini del Seicento e spegnersi felice sui trent'anni o poco più, data l'età media dei tempi, accanto a una Lucia altrettanto sdentata e pellagrosa, ingravidata da sedici figli di cui almeno la metà premorti. Don Rodrigo dall'aldilà degli appestati si sarebbe fregato le mani... Lasciamo stare le facili ironie sul fatto che Pasolini, nemico della società dei consumi, sia stato uno dei pochi letterati italiani ai quali quella società abbia consentito di vivere decorosamente e liberamente del suo talento (fortuna che non arrise al Manzoni). O sul fatto che sceglieva di accompagnarsi agli emarginati per poi rientrare la sera a dormire dalla mamma nel suo lindo appartamento dell'Eur. Il problema non è di gusto (o di gusti) ma di senso storico. Che senso aveva, con la globalizzazione ormai alle porte, mitizzare la battaglia del grano o «l'Italia fascista della meravigliosa, irripetibile bellezza contadina» come si legge nel saggio su Sandro Penna, altro poeta più nostalgico che deviante? Nel portare alle estreme conseguenze l'attacco all'"albero genealogico della tipologia borghese", Pasolini trovava da una parte «il cartellino col nome Hitler» e dall'altra «i poveri focomelici di potere operaio» e altri scarti della società neo-opulenta come gli hippies (ma che mai gli avranno fatto, poveretti? E non è un po' figlio dei fiori il protagonista di «Teorema»?). Per non parlare del culturame del ceto medio, «quella tremenda razza consistente nella fusione in un solo corpo di un professore universitario e di un comunista ortodosso». Qui Pasolini si mostrò buon profeta nell'intuire che nel giro di pochi anni, in Italia e non solo, l'antisistema sarebbe diventato lo zoccolo duro del nuovo sistema e che i figli della contestazione non sarebbero diventati solo dei "notai", come voleva Ionesco, ma dei ferratissimi notabili del potere. Chiunque voglia sottoporsi a una cura depurativa dai guasti del politicamente corretto vada a rileggersi quel che scriveva sul linguaggio oscuro e bislacco delle cosiddette élites, sull'abbassamento culturale di un paese che usciva dall'era del fotoromanzo per entrare senza transizione in quella del rincretinimento audiovisivo. Ma se la critica è salutare e graffiante, la motivazione che le sta dietro convince poco. Intanto, malgrado i suoi strali abbastanza scontati contro D'Annunzio e Marinetti, Pasolini continua ad essere un cultore del «vivere inimitabile». Ciò che detesta nei borghesi - esattamente come il vate e il futurista - non è il fatto che non sono popolo, ma che non sono più