«I cavalli della memoria volano»

Per me è come se fossi in una barca a remi, in mezzo al mare. Continuo a remare dando le spalle alla riva cui voglio approdare. Sento che la terra è vicina, ma non posso essere certo della fine della traversata, perché sono di schiena e non vedo la meta. E, mentre remo, davanti al mio sguardo c'è la tradizione: il mio panorama». Romanziere, poeta, giornalista, orgoglio letterario della Galizia spagnola, Manuel Rivas ha fatto tappa a Milano per incontrare gli studenti dell'Instituto Cervantes. Il 48nne autore dei racconti de «La lingua delle farfalle» (Feltrinelli, 142 pagine, 10 euro) ha affascinato la platea con un suggestivo reading di poesie, preceduto da una sua divertente esibizione con una grande conchiglia in cui ha soffiato a lungo, evocando con i suoi suoni le antiche lentezze all'origine della dimensione umana. Signor Rivas, che titolo ha dato al suo nuovo romanzo e quando lo terminerà? «Il romanzo si chiama "Oeste" («Ovest» ndr) ed è quasi finito. In realtà, credo che stia per terminarlo, ma non posso dirlo con certezza: sono troppo occupato a scriverlo. Sono nel ventre della balena, capisce? Io scrivo, scrivo, ma non bado a dove sono, a che punto mi trovo, perché sono immerso completamente nel mio lavoro. Inoltre, sto preparando anche un lavoro per il teatro, un dramma, il titolo è "Héroe" («Eroe» ndr)». La sua scrittura descrive sovente dei quadri bucolici. Sono immagini di cristallo, preziose e fragili, in cui domina il silenzio: è questa la sua visione della tradizione? «Il mio è un "lugar" nomade, un luogo che si sposta continuamente. La casa dell'infanzia è molto importante. Per il resto, racconto un mondo interiore. Le mie immagini non si riferiscono a storie vere, ma a racconti tradizionali, sono storie di guerra, d'avventura, d'immigrazione, fanno parte della realtà che, però, è più vasta. Non faccio dell'iperrealismo: sono i cavalli della memoria che vanno a briglia sciolta. Come Paul Eluard, penso anch'io che vi siano degli altri mondi, ma che tutti stanno in questo. Talvolta, faccio ricorso all'ironia che è un modo di guardare avanti, dinamicamente. La visione armonica della tradizione è diversa da quella statica, avvitata su se stessa, di segno conservativo». Come scrittore, qual è il suo punto di partenza? «Per me, scrivere è come salire e scendere da una scala. Le parole hanno i loro battiti e vanno ascoltate, ma anche i silenzi sono creativi. Per me, scrivere implica la riflessione: è l'attività massima della parola compromesso. Benché a priori ci sia l'ideologia, è la realtà che ti compromette. Creare con le parole significa fissare delle relazioni. Lei mi chiede del mio punto di partenza: l'impatto, la vibrazione interiore, è questa la cellula madre della letteratura. E, come la matita tratteggia i contorni della nostra mano poggiata sul foglio, la letteratura tratteggia i bordi dell'anima».