La Corea non lo capisce, Roma lo esalta

Per la sua prima visita a Roma, la Mikado - che distribuirà il film dal 21 ottobre - ha organizzato per Kim Ki-duk una maratona cinematografica gratuita nella sala del Quattro Fontane ed è stato un trionfo: già dalla prima proiezione delle 15.00 tutti gli spettatori in più non sono riusciti ad entrare. Con «L'arco» il regista firma la sua dodicesima sfida artistica, che narra punti di vista non convenzionali, osando avventurarsi in temi assolutamente nuovi, per fantasticare sulla realtà degli incubi in modo spietato, tanto da riaccendere l'amore e la passione per gli aspetti - solo in apparenza - più ordinari della vita. Nato nel 1960 a Bonghwa, un villaggio rurale nella provincia del Kyonsang del nord, Kim Ki-duk ha seguito fin da bambino un percorso avventuroso: a causa di una complessa situazione familiare, ha abbandonato la scuola; appena adolescente, ha lavorato in fabbrica e poi si è arruolato nei corpi speciali dell'esercito. Dopo 5 anni da sottufficiale, un'improvvisa vocazione religiosa lo ha spinto a trascorrere due anni in una chiesa con l'intenzione di diventare predicatore. Poi, il viaggio a Parigi, il ritorno in patria e la scelta di realizzare i suoi rarefatti film, per i quali è stato più volte definito l'Antonioni d'Oriente. L'Italia è stato uno dei primi Paesi europei ad apprezzarlo, sia la stampa sia il pubblico: l'anno scorso ha vinto il Leone d'argento a Venezia con «Ferro 3 - La casa vuota» e a fine novembre sarà celebrato al Quirinale, dove gli verrà consegnato il Premio De Sica alla carriera. «Sono orgoglioso di questo premio - ha esordito ieri il regista coreano - anche perché De Sica, insieme con Fellini e Pasolini, sono i registi italiani che amo e conosco meglio. In Corea non sono molto capito, forse perché la cultura del mio Paese si sta evolvendo piano. Sono partito da film concreti e poi, a mano a mano, ho realizzato storie sempre più astratte, fino a far scomparire quasi le parole. Per me sarebbe il massimo poter esprimere i significati senza l'uso dei dialoghi. "L'arco" è il racconto di un vecchio e di una giovane da lui amata: il vecchio ha un arco che rappresenta il suo alter ego, la forza con cui protegge la ragazza, il conforto con cui calma la mente, il desiderio sessuale per la donna che non potrà mai avere e persino il suo strumento musicale. Anticamente, in Asia, si suonava l'haegum, un tipo particolare di arco. Ho voluto reinterpretare la natura di questo mezzo che io stesso uso, anche in alcune scene del film: è uno strumento che uccide e protegge, che suona e comunica con l'anima del mondo, è l'utensile sciamanico che predice il futuro. Nel prossimo film vorrei far diventare protagonisti gli oggetti, magari una pistola o un'automobile, e lasciare gli uomini sullo sfondo».