La «lingua» lombarda rischia l'estinzione

Il grido d'allarme per gli idiomi in pericolo di vita è stato lanciato dall'Unesco, che ha pubblicato un documento dai toni foschi, intitolato - appunto - "Atlante delle lingue del mondo a rischio estinzione", con tanto di carte geografiche (come ogni atlante che si rispetti) che mostrano la densità - nelle diverse aree del mondo - di quelle in condizione precaria di salute. Il rapporto è stato illustrato ieri a Montecitorio da un gruppo di illustri esperti, capeggiati dall'ex Ministro della Pubblica Istruzione Tullio De Mauro (linguista insigne) e composto dai professori Massimo Vedovelli, Giuseppe Castorina e Maurizio Gnerre. A coordinare i loro interventi, il segretario dell'associazione radicale "Esperanto", Giorgio Pagano. A dire il vero, nessuno era in gramaglie, anche se le previsioni dell'Unesco sono terribili. Entro questo secolo potrebbe sparire dalla Terra il novanta per cento delle lingue oggi viventi. Lo strazio relativo si spiega anche con il fatto che l'anagrafe dell'Unesco censisce 6.000 lingue, alcune delle quali parlate da gruppi ristrettissimi di popolazione (meno di diecimila persone, in alcuni casi meno di mille) e due terzi delle quali tramandate solo verbalmente. Il 50 per cento di esse sono oggi in stato comatoso. È ovvio che non c'è molto da rallegrarsi di fronte a questa situazione. La lingua è il primo strumento di ogni civiltà, e l'antropologia culturale si preoccupa da sempre di tenere sotto osservazione (o monitoraggio, come si direbbe oggi, offendendo la lingua italiana) questo genere di fenomeni. La globalizzazione ha aggiunto nuovi rischi a quelli tradizionali, l'egemonia dell'inglese (delle altre lingue veicolari) ha fatto il resto. Ma - come ha spiegato lucidamente De Mauro - nella linguistica ci sono spinte e controspinte. Basterebbe un dato: nel 1975 le lingue che avevano tradizione scritta erano meno di mille; si sono più che raddoppiate. De Mauro non ha nascosto qualche perplessità sui criteri di studio dell'Unesco, richiamando il lavoro del centro Ethnologue, in Texas, diretto da oltre cinquant'anni da Barbara Grimes, una studiosa che gira il mondo in lungo e in largo (con il termometro in tasca, si può supporre) per diagnosticare le proporzioni dell'epidemia. Lo stesso De Mauro ha indicato la ricetta giusta per correre ai ripari: il bilinguismo. È chiaro che una piccola comunità non può sperare di tenere i collegamenti con il mondo esterno utilizzando la propria lingua: l'apprendimento di un'altra lingua, di grande diffusione, garantisce la possibilità di salvare la loro, tramandandone i vocaboli e la sintassi. S'è parlato anche dell'italiano, dopo le recenti polemiche in sede europea. Non c'è alcun motivo di preoccuparsi (salvo che per alcuni dialetti: a detta dell'Unesco sono in sofferenza il piemontese, il lombardo, il ligure, il sardo, l'emiliano e il romagnolo, ma non gli altri vernacoli nostrani, e i linguisti presenti si sono domandati con quale criterio fosse stata fatta questa distinzione). Siamo anche noi soffocati dall'inglese, beninteso, ma la nostra lingua è viva e vegeta. A parlarla - come idioma unico o principale - siamo soltanto in sessanta milioni nel mondo, il che ci pone allo stesso livello del vietnamita. E questo potrebbe sconfortarci. Ma le statistiche dicono che l'italiano è la quarta lingua più studiata nel mondo, ed è addirittura la seconda come presenza fisica nelle insegne degli esercizi commerciali, o nelle espressioni usate negli spot pubblicitari. Talmente usata che gli stranieri, spesso, non si rendono neppure conto di usarla. Il professor Castorina ha raccontato di quando una persona, all'altro capo del mondo, gli chiese: «Ma voi, in italiano, che parola usate per indicare la pizza?». E il professor Vedovelli ha citato una bevanda tedesca, lanciata di recente, che somiglia - come gusto - al nostro cappuccino. L'hanno chiamata "Freddoccino", un neologismo che suona italiano. Ch